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La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla.
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    30/12/2019

    Di pietre e fiducia

    Filed under: — JE6 @ 20:34

    Qualche settimana fa ero a Londra e avendo un paio d’ore a disposizione prima di andare a prendere l’aereo di ritorno ho pensato di fare una puntata al British Museum dove, in tanti anni di viaggi da quelle parti, non ero mai stato.

    (Lo so, due ore non sono nulla, ma da qualche parte ho letto che si tratta della durata media della visita al Louvre: non ne vado orgoglioso, ma so di essere in vasta anche se non così buona compagnia)
    Non starò a dire della meraviglia dei bassorilievi di Ninive o della Stele di Rosetta o dei marmi del Partenonen né delle giravolte morali che portano il sincero democratico a pensare che tutto sommato il colonialismo non morbido dell’Impero inglese non è forse stato solo foriero di indebite appropriazioni materiali e culturali e vada in qualche silenzioso modo ringraziato.

    Dirò invece di un piccolo episodio accaduto durante quelle due ore. Cercando la sala con il Moai dell’Isola di Pasqua (la 24) sono finito in quella della World Archaeology (la 2: pensavo fosse amore e invece eccetera). Mentre mi guardo intorno realizzando che non c’è in vista nessun faccione di pietra passo davanti a un tavolino senza pretese, dietro al quale sta una signora di mezza età dai vaghi lineamenti di erede di sudditi coloniali (appunto) e sopra il quale sono appoggiati una chiave USB e un sasso. La signora mi chiede se sto cercando la Room 2A e quando le rispondo che no, ecco, a dire il vero no perché in effetti stavo cercando altro ma, lei con un sorriso mi dice non importa, se ha qualche minuto ho comunque una cosa molto bella da farle vedere. Sarà stato il sorriso affabile, sarà stata la mia scarsa frequentazione di musei e soprattutto di loro dipendenti con apparenti funzioni di buttadentro, insomma ho deciso di fermarmi ad ascoltarla. Lasciamo stare la chiave USB, per la quale servirebbe un altro post: sta di fatto che la signora mi mette in mano il sasso e mi chiede come lo sento e cosa penso che sia. Cercando di emergere dall’imbarazzante abisso della mia ignoranza le rispondo che sicuramente non è un semplice sasso altrimenti non starebbe qui nel museo, che riesco a stringerlo bene nella mano e che potrebbe essere, forse, chissà, la punta di una lancia. Quasi materna, la signora mi rinnova il sorriso, mi invita a portare mano e sasso ben sopra il tavolino e mi dice no, non proprio, è sostanzialmente un utensile da cucina preistorico: secondo lei quanti anni ha questo oggetto? Dopo aver vinto l’orribile immagine di un pleistocenico giudice di Masterchef rispondo balbettando che non ho idea, forse sei-settemila anni. Il sorriso si trasforma in una soddisfatta risata, dopo la quale vengo informato che il sasso che ho in mano è il progenitore di un coltello da cucina, modellato nella selce con sapiente sforzo da un homo habilis la bellezza di quattrocentomila anni fa. Deglutisco, appoggio impaurito il sasso sul tavolino e ascolto il meraviglioso racconto del suo ritrovamento nella valle della Somme fra ossa di soldati e residuati bellici della prima guerra mondiale, delle inaspettate capacità manuali del suo costruttore e della vita che faceva, dei tentativi della signora di riprodurne uno dotato della stessa stupefacente ergonomicità (tentativo coronato da successo, testimoniato dalle foto scattate nel suo tinello in occasione dell’utilizzo per scarnificare un coniglio destinato alla cena).

    Quando la signora ha finito di parlare le ho prima chiesto se avevo capito bene, se davvero quel sasso che avevo tenuto in mano aveva quattrocentomila anni di servizio e quando me lo ha confermato le ho poi detto, suonando temo meno incredulo di quanto veramente fossi, che lei e tutto il museo si stavano davvero fidando dei visitatori, di me e della coppia che mi stava a fianco e della ragazza che si sarebbe fermata di lì a poco e della famiglia madre-padre-figlia-figlio che avrebbe fatto altrettanto una mezz’ora dopo (sì, ci sono tornato tre volte in un pomeriggio, le mummie egiziane tanto da lì non si muovono). E lei, dopo avermi assicurato che non avevo tenuto in mano l’unico esemplare in loro possesso (“ne abbiamo parecchi altri: in quella sala ce n’é uno dentro una teca che ha un milione e ottocentomila anni di età, quindi questo è quasi nuovo”) mi ha detto con la serenità dei giusti: vede, sì, ci fidiamo, ci fidiamo della gente; il museo vuole che voi abbiate la possibilità di toccare un oggetto così, di tenerlo in mano purché restiate sopra il tavolino per evitare che si frantumi se mai vi dovesse sfuggire, perché è una cosa che non dimenticherete mai più.

    Perché racconto questa piccola cosa? Perché il British Museum è un ente pubblico, che non chiede un soldo a chi entra per passare cinque minuti o un giorno dentro una serie di meraviglie da far girare la testa e si limita a chiederti una donazione di cinque sterline e se non gliele lasci non fa niente, non è lì per fare soldi ma per darti bellezza e storia e ricchezza e la sensazione di essere migliore di quello che pensi, al punto da valere la fiducia che ti mette in mano il coltello con cui un essere umano tagliava la carne in una sera di primavera di quattrocentomila anni fa. Perché alla fine di un anno costellato di un sacco di cose brutte e spiacevoli un gesto di stima gratuita e di gentilezza disinteressata è una piccola mano santa che sarebbe bello sperimentare più spesso e altrettanto spesso poter ricambiare nel faticoso rapporto con lo stato: in fondo quella signora ero io che davo fiducia a me stesso; per quello le ho voluto bene, per quello avrei fatto per lei molte cose belle e buone per ricambiare, facendo un piccolo e prezioso favore senza il cartellino del prezzo a lei, a me, a noi tutti: che è il modo in cui mi piacerebbe stare nella comunità in cui sto, che troppo spesso mi dimentico di mettere in pratica e altrettanto spesso mi viene negato.

    04/12/2019

    Mustafa e mia mamma

    Filed under: — JE6 @ 17:40

    Ero ancora minorenne, mi racconta Mustafa mentre attraversiamo Sarajevo, quando sono entrato nell’esercito e così ho continuato a studiare durante la guerra, mi sono diplomato e nel 1993 ho iniziato la facoltà di odontoiatria. Gli chiedo come facevano a studiare, dove andavano a lezione e mi spiega che erano scuole di fortuna, organizzate nelle cantine e in quei pochi posti che venivano ritenuti più o meno al sicuro dai bombardamenti. Andavo a lezione ogni volta che ero libero dagli impegni della mia unità, mi dice; e lo fa senza calcare una sola parola, come se fosse naturale, hai vent’anni, stai combattendo una guerra contro quelli che erano i tuoi vicini di casa e compagni di scuola e amici del cortile e se hai mezza giornata libera vai a studiare e la cosa non ti pesa, è proprio quello che vuoi: lo dice così, e non so se essere più ammirato dall’azione in sé o dalla mancanza di enfasi del racconto.

    Quell’azione mi sembrerà di poterla capire davvero, di sentirla reale e, in qualche inspiegabile modo, viva qualche mese dopo grazie a mia mamma, la donna che mi ha insegnato a leggere e della quale il primo ricordo che ho è di lei che mi sta vicina, chinata sulla mia spalla destra che mi osserva mentre io, che di lì a non molto inizierò le elementari, sono immerso nelle pagine di Topolino e provo a mettere una lettera dopo l’altra a formare parole e frasi. Quella sera, mentre sono sul pianerottolo aspettando l’ascensore dopo averle fatto visita, mi racconterà che un’oretta prima il sacerdote durante l’omelia aveva invitato anche gli anziani come lei a onorare il padre e la madre con l’unico strumento che gli restava alla loro età: il ricordo e l’affetto, l’amore che questo si portava dentro. “Sai cos’è la prima cosa che mi è tornata in mente?” mi dice, e senza attendere il “no, dimmi” di cortesia va avanti, “hanno fatto tanti sacrifici, proprio tanti, i tempi erano quelli che erano” e scuote appena le spalle come si fa quando non ci si può che limitare a prendere atto di ciò che è stato e di ciò di cui ci si è fatta una ragione, “ma non ci hanno mai fatto perdere un giorno di scuola. Mai, la scuola era sacra.” e intanto arriva l’ascensore e con il pollice spingo quel che basta a socchiuderne la porta e tenerlo occupato e dare modo a lei di finire la frase e a me di vedere i miei nonni, nonna Marianna nel suo lutto eterno e nonno Antonio nel suo fustagno nuragico, imporre a se stessi la rinuncia all’aiuto che i tre figli, due femmine e un maschio, avrebbero potuto dar loro nei campi in nome della scuola, dell’idea stessa di scuola, loro che di don Milani non avrebbero mai sentito parlare e che di quel prete borghese e rivoluzionario condividevano senza saperlo e senza saperlo esprimere la convinzione nucleare che i bambini dovessero studiare per quanto possibile e anche di più, che i libri e i quaderni e un maestro fossero ricchezze che valevano più del raccolto delle olive. In quei pochi secondi durante i quali mia mamma inizia e finisce il suo racconto vedo lei da bambina e vedo lei da ottantenne che non riesce a non fermarsi davanti a una bancarella o a uno scaffale di libri, non importa quali, “sarà che da ragazzina mi sono mancati così tanto”, e vedo Mustafa che appoggia la sua arma da qualche parte e si siede su uno sgabello traballante mentre fuori cadono le granate serbe o magari c’è una mezza giornata di pausa dei combattimenti e si gode le sue lezioni di odontoiatria, se le gode come quando svieni dalla fame e anche un pezzo di pane secco sembra un pranzo stellato Michelin e mi pare, in quel momento, di avvicinarmi a capire un ragazzo bosniaco grazie a un’anziana donna sarda, e dovrei lasciare la porta dell’ascensore, liberarlo e andare a dare una carezza a quella donna ma non siamo tanto i tipi, non lo siamo mai stati nel bene e nel male e le dico “sì, è un bel ricordo, e i nonni sono stati bravi, soprattutto con voi femmine” e la saluto, e vado, e ripenso a Mustafa.