Qualche giorno fa mi hanno fatto un’intervista sul viaggio in Bosnia e sul libro che ne è venuto fuori. E’ stata la mia prima volta (mi pare: non che abbia avuto tanti altri motivi per rilasciare interviste), ed è avvenuta mentre stavo a metà dell’unico libro che mi mancava di Svetlana Aleksievič, la grandissima scrittrice bielorussa che nella sua vita non ha fatto altro che pubblicare capolavori imperdibili. Quando le ha dato il Nobel cinque anni fa, l’Accademia di Stoccolma ha definito la scrittura della Aleksievič “polifonica”, che in sostanza significa “concepito o eseguito in contemporanea da una molteplicità di strumenti o voci”. La cosa straordinaria è che in quella polifonia c’è una voce che spicca su tutte e lo fa per assenza: ed è proprio quella dell’autrice. Per centinaia e centinaia di pagine, per libri e libri si “sentono” le voci di tutte le persone che la Aleksievič ha incontrato in decenni di peregrinazioni per la ex Unione Sovietica (e farle percepire nelle loro infinite sfumature e diversità fino a renderle tanto reali da fartele avvertire come se stessero lì con te sul divano è un esercizio di empatia e tecnica di difficoltà mostruosa che lei supera in modo celestiale: ogni tanto con i Nobel riescono ancora ad azzeccarci); come nelle interviste a uomini schifosi di David Foster Wallace ci sono tutte le risposte ma nessuna domanda, ci sono tutti gli altri ma non c’è lei che pure invece avverti a ogni passaggio, riesci a vedertela seduta a un tavolo di legno nell’oblast di Minsk o in un appartamento in condivisione a Kursk che lascia scorrere il fiume e al tempo stesso lo sa indirizzare per far emergere non ciò che vuole lei, ma ciò che l’intervistato desidera senza nemmeno esserne del tutto consapevole. Pensavo a questa cosa mentre rispondevo alle domande di Dino Huseljić (che, non ci dovrebbe essere bisogno di dirlo, ringrazio moltissimo): pensavo a quanto sia difficile dare risposte, ma ancora di più a quanto lo sia fare domande; a quanto spesso e soprattutto come questo meccanismo, questa specie di ballo tra due soggetti si ripete ogni giorno in una sinusoide di imposizioni e disponibiità più o meno inespresse: cosa vorrà sentirsi dire, cosa voglio sapere, cosa hai da tirare fuori. E’ un esercizio di equilibrismo, delicatezza, imposizione, desiderio, comprensione difficilissimo e infatti quante volte nella vita capita che ma questo non me l’hai detto, lo so ma tu non me l’hai chiesto. Vivere, diceva Philip Roth, è capire male la gente e poi capirla male ancora e continuare a provarci: guarda cosa ti fa pensare un’intervista, guarda cosa dovremmo pensare ogni volta che ne leggiamo una.