|
|
30/11/2013
Judy ha l’età indefinibile dei cinesi, una cosa qualsiasi tra i venti e i trent’anni. Ha un negozio al Fake Market, vende borse borsette e portafogli; il negozio porta il suo nome – cioè quello che lei si è scelta per farsi ricordare dagli occidentali che a migliaia passano qui dentro ogni giorno – e quello della sua ex socia, che a febbraio è partita per andare a trovare la famiglia e non è più tornata, senza una spiegazione né un motivo, né una telefonata di ritorno. Se cerchi un orologio Judy ti porta da suo fratello, che tiene un altro negozio a pochi metri di distanza; e se cerchi delle scarpe Judy ci pensa su qualche secondo, poi ti dice vieni con me e manca solo che ti prenda per mano, e ti porta da un’amica, un cugino, un membro della rete di parenti veri e no che il suo inglese incerto ti descrive senza entrare nei dettagli. Ti fa entrare nel retro del negozio, ti mostra uno sgabello, ti invita a sederti e ti offre una bottiglietta d’acqua – sempre rigorosamente nuova, così che si possa sentire il clic della plastica che si rompe quando giri il tappo e tu sia tranquillo – ti chiede come va il lavoro, quando riparti, quando ritorni a Shanghai. Sembra interessata a saperne di più della vita dei suoi clienti, anche se fa mai passare più di tre minuti dall’ultima volta che ti ha chiesto do you want some more bags my friend prima di richiedertelo. Tu comunque rispondi, fai quattro chiacchiere, le chiedi come va il suo di lavoro, se vende abbastanza, lei alza appena le spalle e dice così così, sono un po’ stanca, ieri sera ho fatto le tre per portare qui il nuovo carico di merce, stanotte sarà lo stesso. Ma cosa fai quando finisci qui, le chiedi, o quando hai un giorno libero – lei ti guarda senza espressione e dice non faccio niente, inizio alle nove della mattina, finisco alle nove di sera, metto a posto, pulisco, esco alle dieci, vado a casa, mangio, dormo. Sette giorni su sette da quando la ex socia una mattina non si è presentata al terzo piano del palazzo di West Nanjing, ma questo Judy non lo dice, non si lamenta, rispetto a centinaia di milioni di suoi connazionali probabilmente è una privilegiata anche se vive rinchiusa in questo posto senza finestre e aria fresca ogni giorno della sua gioventù. Quando ti saluta dice see you soon anche se sa benissimo che il soon potrebbe essere mai più, poi ha un microscopico scatto, una specie di velocissima scintilla negli occhi – sure you don’t want a bag?
28/11/2013
Sono una dozzina, disposti su due file lungo un marciapiede di Fuzhou Road. Ragazzi e ragazze, sulla ventina. Alcuni indossano una specie di divisa, altri sono vestiti normalmente – una felpa, i jeans. Sul secondo dei tre scalini che portano ai negozi della via stanno altri due ragazzi, che invece di venti avranno venticinque anni lui e ventiquattro lei, e sono chiaramente i capi di quelli che stanno due gradini più in basso: come dire, a metafore non ci facciamo mancare nulla. Ci fermiamo a guardarli, sono dei commessi e sembrano un plotone di soldati, i due capi parlano a voce alta mentre i passanti scorrono senza degnarli di un’occhiata, a un certo punto lui aumenta il volume di un paio di tacche e i soldati sul marciapiede rispondono all’unisono, gridano una frase in coro come fanno i giocatori di basket o di pallavolo prima di iniziare la partita o alla fine di un time-out. I due capi li guardano soddisfatti, sorridono, fanno un cenno con la testa, voltano le spalle alla truppa e entrano nel negozio, mentre i commessi-soldati salgono gli scalini e li seguono – a la guerre comme a la guerre.
26/11/2013
Saliamo sul taxi, facciamo la stessa strada – lei per tornare a casa, io per andare in albergo. Siamo stanchi, altrimenti forse questo pezzo di strada – prima Shaanxi verso sud, poi Nanjing verso est – ce lo faremmo a piedi come capitava di fare mesi fa insieme agli altri colleghi. Ci raccontiamo le cose che non abbiamo finito di dire a cena, come va le chiedo, e mi risponde non so, sono stanca, mi sa che con la Cina ho finito, è un sacco di tempo che sono qui. Faccio mentalmente i conti, so che non arriva a trent’anni, ripenso a quel “ho finito” e prima mi chiedo cos’ha che non va lei, poi mi chiedo cos’ho io che non va e alla fine, fermi al semaforo di People’s Square, mi sforzo di pensare, di convincermi che non c’è niente di sbagliato, ognuno ha i suoi momenti, i suoi periodi, i suoi piani, le sue stanchezze, e non c’è niente di male a voler staccare la spina per un po’ anche se questo ti porta lontano dal centro del mondo mentre sei ancora giovane, forse è vero che c’è un tempo per ogni cosa – se solo potessimo sapere prima quando questo verrà, o quando finirà.
E’ nel momento in cui salgo sulla metro a Pudong che mi sento a casa. O come a casa. A volte è giusto un modo di dire, a volte no. E, per me, qui non lo è. A Shanghai ho vissuto, lavorato, fatto la spesa, preso la metro, visto la neve. Quando esco alla luce delle sette del mattino alla fermata di East Nanjing riconosco il profumo della città. Mi orizzonto, in certe zone in modo grossolano – nord sud ovest est, se salgo mi avvicino, se vado a sinistra mi allontano – e in altre come se fossi nel mio quartiere a Milano – due isolati a sinistra, poi a destra, l’ufficio postale, il Family Mart – come se avessi dentro lo zoom di Google Maps. Rimango male se non trovo più il negozio dove compravo le penne a trenta centesimi, stanno sbancando tutto, chissà cosa ci metteranno dentro in quelle due vetrine. Resterei in giro tutto il giorno, tornando in Shaanxi Bei Lu e alle spalle del Wusong, e al tempo stesso mi piace camminare su Jiujiang con la borsa a tracolla per andare in ufficio. Ogni tanto penso a mia nonna, che non lasciò mai il suo piccolo paese del Goceano, e mi chiedo cosa penserebbe, se capirebbe mio cugino che un mese fa stava su un impianto in Indonesia, se capirebbe me qui, in riva allo Huangpu.
30/07/2013
(…) Tutti i negozi di un certo livello hanno l’apritore di porte, taluni – quelli dei marchi di maggior lusso – ne hanno due e io non farei altro che entrare e uscire per vederli muoversi con la sincronia dei tuffatori o dei ballerini di Broadway: perché naturalmente non si limitano ad aprire la porta quando entri, lo fanno anche quando esci, accompagnandoti con la loro maggior grazia possibile.
Giusto per farmi provare ancora la nostalgia del Bund, il Direttore pubblica a tradimento l’ultima letterina da Shanghai, una specie di sequel che trovate qui, su Left Wing.
05/06/2013
Il Direttore sta smaltendo gli arretrati. Oggi su Leftwing si parla di sesso a pagamento, come si confà all’italiano moderno.
11/04/2013
Dicono che uno dei segni, delle prove dell’amore non sia quello di non vedere i difetti dell’altro, ma di averli ben chiari e di non considerarli come qualcosa di così grave. Qualcosa che fa parte in un insieme più grande, che è quello – appunto – che ami. E allora adesso che sono qui in aeroporto ad aspettare di salire sull’aereo che mi riporta a Milano posso dire che di città ne ho viste tante, alcune orribili ma tante magnifiche anche fuori da quei tre o quattro chilometri quadrati che lasciano ogni turista con la bocca aperta e gli occhi sbarrati dallo stupore e dalla meraviglia, ma che un posto come Shanghai, una città grande più di tante nazioni ma fatta di un miliardo di microcosmi, lucente e sporca, rumorosa, incasinata, fatta di tacchi a spillo e capelli mal tagliati, interiora di pesce e Porsche e aria irrespirabile e ciliegi fioriti e bambini bellissimi, un posto vivo nel senso più vero della parola non l’ho mai visto, né New York né Chicago né Londra né Roma, e so che ne ho nostalgia già adesso che ancora sono qui e non so se avrò mai la fortuna di tornarci un’altra volta per non riconoscerla o per trovarmici male o per rimanere ancora una volta fermo in mezzo a un milione di persone che camminano, a guardarne le luci, a sentirla pulsare come l’arteria di un ragazzo di sedici anni. Xie xie Shanghai, grazie, I will miss you, I will miss you so much.
09/04/2013
Lungo un buon pezzo di Nanjing Lu West, dal palazzo della Porsche fino al Jing’an Temple ad ogni paio di incroci si incontrano dei motorini sui quali sono stati installati un grosso cassetto di legno e due amplificatori. Il cassetto contiene dei cd, tutti di musica latinoamericana, e gli amplificatori la fanno ascoltare. A dire il vero viene il sospetto che siano state registrate due sole canzoni, una versione di Besame Mucho e una che fa Que sera sera ma non è quella famosa che conosciamo tutti. La cosa fantastica è che questa dozzina di punti di ascolto sembrano sincronizzati tra loro, così che tu passi davanti al Windows Garage e senti quei venti secondi di canzone, arrivi al Family Mart e senti gli stessi venti secondi, passi davanti a Mont Blanc e ancora quei venti secondi, che puoi riascoltare davanti allo United Plaza in una camminata che a quel punto è diventata di un quarto d’ora abbondante. Li senti al mattino alle nove, all’ora di pranzo, durante il pomeriggio, la sera quando la gente esce per andare a bere qualcosa o viene fuori dalle fermate della metropolitana: ti si ficcano in testa, quei venti secondi, come un chiodo, ti ritrovi a fischiettarli senza nemmeno rendertene conto. Sei in Cina, a pochi chilometri dal delta dello Yangtze, ti guardi intorno e potresti essere a New York, e nell’aria senti la musica di Buenos Aires mentre vai a parlare con un direttore creativo dal tenero accento parigino: forse un giorno ci abitueremo per davvero a tutto questo, forse un giorno non ci faremo più caso; forse quel giorno è già arrivato, e iniziamo ad accorgercene.
08/04/2013
Quando ormai nessuno ci contava più, è arrivato un giorno di primavera. Un giorno caldo, col cielo azzurro e un filo d’aria che fa scordare per qualche ora l’inquinamento e il nuovo ceppo di aviaria. Un giorno che fa venire la nostalgia prima ancora di partire, di quelli che ti senti pieno e vuoto al tempo stesso, e per gli stessi motivi. Un giorno che ti porta in un parco a un’ora di metropolitana da casa, a camminare in mezzo a famiglie e gruppi di amici e coppie, a sentire l’erba sotto i piedi, ad alzare gli occhi e riempirli dei rami fioriti di centinaia di ciliegi. Un giorno che ti fermi ad ascoltare il nulla dell’acqua del fiume che scorre mentre in lontananza senti il rombo della città – una delle sopraelevate, forse uno dei mille cantieri sempre aperti – che è come un animale grosso e affamato, ma tenuto a distanza dal bosco che hai davanti agli occhi. Un giorno che bevi un bicchiere di succo di bambù, un giorno che mangi la prima fetta di anguria dell’anno, buona come da tanto non ti capitava. Un giorno che è un giorno in meno, e però un giorno in più.
Escono quando viene il buio, dalle otto o nove di sera fino a notte fonda. Li vedi un po’ dappertutto, sotto i ponti delle sopraelevate, lungo i marciapiedi delle vecchie concessioni straniere, nelle aree di carico e scarico degli alberghi e dei flagship stores. Non so chi siano, sono centinaia, più probabilmente migliaia di persone di ogni sesso e età, a volte ragazzini a volte anziani che vorresti immaginare seduti davanti a un fuoco caldo. Prendono gli imballaggi di cartone e meticolosamente li aprono, li piegano e li impilano; per ore, costruendo ogni notte parallelepipedi di volumi impressionanti che poi caricano, investendo almeno altrettanto tempo per far sì che quella montagna di cartone non si sfasci lungo il percorso, su biciclette, motocarrozzette, a volte addirittura camion. Qualcuno si occupa anche della plastica, in particolare dei boccioni vuoti usati per distribuire acqua nelle macchine erogratrici degli uffici, e così capita di vedere circolare delle specie di astronavi che si muovono lungo le strade perennemente piene di qualsiasi mezzo di locomozione immaginabile circondate da questi salvagenti da venti litri di capienza, qualcuno ne porta dieci, qualcun altro quindici, pare di essere al circo. Quando hanno finito la preparazione, dopo una notte di lavoro lunga quanto una giornata, salgono in sella e partono; diretti verso chissà dove, per guadagnare una manciata di yuan, in attesa della prossima notte – e speriamo che non piova, perché il cartone bagnato non lo vuole nessuno.
|
|
|