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La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla.
(Gabriel Garcia Marquez)

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    17/09/2015

    E in un istante sei a casa

    Filed under: — JE6 @ 14:00

    Questa cosa dell’anatomia degli istanti mi sta sfuggendo di mano.

    Scendo dal tram in via Dogana. Non ha niente di particolare, questa via, è come molte altre del centro di Milano, gente che aspetta alla fermata del 24, gente che ci sale, gente che la attraversa per andare da Piazza Duomo a Piazza Diaz, il sole che quando c’è arriva di sbieco perché è stretta e i palazzi sono alti. C’è una via così praticamente dappertutto, guarda adesso non saprei dirti il nome ma credimi, l’ho vista a Francoforte e a Madrid, a Londra e a Chicago, pure a Rimini, mi pare dalle parti della stazione. Scendo dal tram e faccio due passi di numero e vedo una targa all’ingresso di un portone, un rettangolo grosso di metallo nero con una sottile cornice e le lettere dorate, i caratteri che potrebbero essere degli anni Cinquanta, una targa che sta lì, ferma, a dire che al secondo o al terzo piano c’è qualcosa, uno studio legale, un dentista, ferma in mezzo agli hipster, agli impiegati, agli studenti, ai turisti, a tutta la gente che aspetta il tram e che va da Piazza Duomo a Piazza Diaz e ritorno, e nell’istante preciso che la vedo so che va bene Francoforte e Madrid e Londra e Chicago e Rimini ma la verità è che quella targa può stare solo a Milano, e che sono a casa, e non ho bisogno di fermarmi a guardarla perché è lì da una vita e per un’altra vita ci resterà, basta un istante a capirlo, a saperlo.

    Che gusto è, gli dico, e lui dice anguria, quell’altro è limone, cerco in tasca e tiro fuori un altro dollaro mezzo stropicciato, anguria grazie. Esco con il mio sacchetto e il bicchiere di plastica con la cannuccia e la granita, sto sul marciapiede aspettando il verde per attraversare uno dei due grandi boulevard che tagliano Harlem in verticale, fa caldo ma non troppo, sono l’unico bianco fino a dove arriva la vista, faccio il calcolo di quanto manca alla partenza, e nell’istante preciso in cui avverto il freddo del ghiaccio arrivare a spaccarmi il naso là sopra, proprio in mezzo agli occhi, in quell’istante lì mi dico ma bastano davvero due giorni e spiccioli per sapere e sentire di essere a casa e poi perché proprio qui, cos’ha la Bowery che non va, ma è un istante solo, di quelli lucidi e densi da sembrare colla, scuri come buchi neri, poi il semaforo cambia colore.

    15/09/2015

    Nascosti in bella vista sotto gli occhi

    Filed under: — JE6 @ 13:44

    E’ una bella fregatura, l’abitudine. Passi davanti alle cose oggi domani e dopodomani e alla fine non le vedi più, chiedi a quelli che ogni mattina escono dalla metropolitana e passano davanti al Duomo. E’ come con le foto che tieni in casa sulle mensole, loro sono sempre lì con i sorrisi, gli occhiali fuori moda, le spiagge assolate, i vestiti della cresima, tu passi e dopo un po’ non guardi più, ti ricordi che caldo faceva, ah, ehm, faceva caldo, sì, vero. E insomma cos’è che tiene viva la memoria io non lo so, so che non è il tenere in vista perché altrimenti non saremmo tutti così dimentichi di noi stessi, anzi forse quello è un modo per perderla, la memoria, mettere i ricordi nascosti in bella vista sotto gli occhi, perché altrimenti come potresti abitare a Budapest e camminare lungo quel pezzo di Danubio dove hanno piantato le scarpe di metallo che ricordano la più gigantesca e veloce deportazione della storia europea e la gente che veniva uccisa dai miliziani della Croce Frecciata, mettetevi in riva così non dobbiamo fare nemmeno lo sforzo di scavare una fossa comune, ci penserà il fiume, come potresti farlo e chiuderti dentro il filo spinato e non essere sfiorato dal dubbio che stai tornando indietro di settant’anni, che stai assomigliando sempre più a tuo nonno, che hai dimenticato da dove sei scappato, e infatti ci stai tornando.

    03/09/2015

    Dati causa e pretesto, le attuali conclusioni

    Filed under: — JE6 @ 14:37

    “Se fossero sinceri ce lo direbbero. Ci direbbero che con tutta la gente che muore, chissene frega dell’arte. Ma sbagliano. Perché è per questo che noi combattiamo, per la nostra cultura, e per il nostro stile di vita. Puoi sterminare una generazione di persone, radere al suolo le loro case, troveranno una via di ritorno. Ma se distruggi i loro conseguimenti, e la loro storia, è come se non fossero mai esistite, solo ceneri, che galleggiano. Quello che vuole Hitler, ed è la sola cosa che non possiamo permettergli.” A volte cerchi di elaborare in pensiero una roba che ti gira nello stomaco, senza riuscirci perché te ne mancano gli strumenti o perché quando ti pare di esserci vicino succede qualcosa che ti scombussola le priorità più o meno faticosamente costruite. Una di quelle robe che gira nello stomaco per me è la distruzione delle opere d’arte dell’antichità, i Buddha di Bamiyan, il Tempio di Bel di Palmira, i musei in Iraq, sono cose che leggo il titolo e poi mi tappo le orecchie e faccio lalalalalala perché mi fanno male in un modo che nemmeno capisco – fino a quando non arriva George Clooney a spiegarmelo in un minimonologo di Monuments Men (per dire che le vie del Signore sono davvero infinite).

    Che poi di quello stile di vita per il quale combattiamo, più o meno consapevolmente, fa parte anche il passare ore ad accapigliarsi sulla pubblicazione di una fotografia e/o su un titolo che la accompagna, proprio perché ce lo possiamo permettere, perché stiamo (ancora) al sicuro e al caldo e al fresco a seconda della stagione. Come sopra, non ho un pensiero elaborato, mi sa che non c’è una ricetta valida sempre e per tutti, c’è chi quella foto non ha bisogno di vederla per sapere davvero cosa succede in Siria e nel mare e sulle montagne che la separano da un’esistenza meno lontana dalla morte e c’è invece a chi quella foto serve per aprire gli occhi e chi può dire che il primo è bravo e il secondo no o viceversa. In generale non credo che queste discussioni siano tempo perso perché ci permettono di pensare a chi siamo, alle cose che facciamo, a quelle che leggiamo e guardiamo e ascoltiamo, a come reagiamo, a come le assorbiamo un po’ alla volta ogni giorno e a cosa diventiamo il giorno dopo, insomma un pezzo del modo in cui stiamo al mondo (ed è una cosa, questa del pensare anche nelle situazioni più tragiche e incasinate, che ci portiamo dietro da più o meno tremila anni, secolo più secolo meno, ce l’hanno passata i Greci che nelle pause tra uno scannamento e l’altro inventarono la filosofia occidentale). In tutto questo mi viene in mente che in tantissimi racconti dell’Olocausto c’è il ma noi non sapevamo, non immaginavamo pronunciato da brava gente in tutta Europa, gente che non aveva né voglia né interesse di girare la testa come fecero migliaia di contadini della Slesia per continuare a vivere in una specie di pace ottusa e ai quali, forse, vedere per tempo qualche fotografia di Birkenau avrebbe fatto bene (che poi chissà, visto che la più frequente reazione che i sopravvissuti ai lager si vedevano opporre ai loro racconti era un misto di rifiuto e incredulità così netto da uccidere una seconda volta quelle persone, aggiungendo quella che alcuni di loro avvertivano essere l’atroce beffa dell’essere rimasti una seconda volta in vita).

    Onestamente spero di non essere il solo, ma a volte mi succede questa cosa, leggo i commenti a una certa questione e cambio idea a (quasi) ogni commento – ma mica perché sono d’accordo con il commentatore. Anzi.