Quello che non c’è
L’ho vista per mesi, ogni volta che passavo in piazza Duomo. Stava sempre nello stesso posto, lo stesso quadrato di marmo, un metro per un metro e lei in mezzo come un albero in un’aiuola qualunque tempo facesse, con un cappotto viola e i capelli grigi e sporchi, in piedi, lo sguardo fisso verso chissà dove – il monumento equestre, la fila dei taxi, non so. Non parlava con nessuno, non chiedeva la carità, non faceva niente che non fosse stare ferma in un angolo di una piazza enorme affollata in ogni minuto della giornata da migliaia di persone come se fosse vuota. Dopo un po’ ci ho fatto l’abitudine, come tutti. Come se fosse un pezzo dell’arredo urbano, per quanto orribile sia anche il solo pensare una cosa del genere. Poi è sparita, per giorni e settimane e mesi, il primo giorno ci ho fatto caso (è incredibile quanto sia più facile notare ciò che non c’è), il secondo pure, il terzo un po’ meno, poi basta; non credo di essermi fatto molte domande. Poi è tornata. Per un giorno solo, con gli stessi capelli e vestiti diversi ma ugualmente stazzonati – d’altra parte se sei una senza casa cosa pretendi. Aveva anche lo stesso sguardo fisso, perso ma concentrato al tempo stesso. Era lei, in tutto e per tutto, solo che questa volta stava là sotto, nella fermata della metropolitana, in quell’angolo che porta ai tornelli arrivando dall’ingresso che sta sulla sinistra guardando il Duomo di fronte, ferma come un albero in un’aiuola e chissà cosa stava guardando, forse la luce in cima alle scale o un cartellone pubblicitario di una fiera o un tour operator. Le sono passato davanti senza fermarmi, provando per un secondo l’ipocrita sollievo di saperla viva, poi ho fatto la seconda rampa di scale, Bisceglie-Rho Fiera da una parte, Sesto F.S. dall’altra. Il giorno dopo non c’era più, l’ho notato, il giorno dopo quell’angolo era ancora vuoto, l’ho notato, il giorno dopo ancora sono passato senza farci più attenzione: io c’ero.