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30/07/2010
Gli italiani rimangono sposati in media per 15 anni. Insomma, Gianfranco e Silvio sono due persone normalissime.
Corriere.it, Repubblica.it
28/07/2010
Ogni tanto capita che “la vita degli altri” sia la tua, che sotto la lente e dietro il microfono ci sia tu e il tuo microcosmo, quello che non conosce nessuno, e torni a casa in una sera d’estate chiedendoti chi e cosa sei, perchè agli occhi e alle orecchie degli altri ognuno appare anche per quel che è e non solo per quel che mostra, domandandoti cosa sembri la tua vita di tappeti mancanti e schermi piatti e pareti arancioni, e pensando che chissà se per tutti – nessuno escluso – non sarebbe sempre e comunque meglio incontrarsi in campo neutro.
25/07/2010
“Qui sono convinti che se le ignori, le brutte notizie se ne vanno”
[Radio America, Robert Altman]
24/07/2010
…
…
Dimmi.
Sì.
…
No, niente.
Adesso ti riconosco.
22/07/2010
Ogni tanto qualcuno mi chiede “ma come fai ad avere (quasi) ogni giorno qualcosa da dire”. Io alzo le spalle. E’ che in realtà vorrei rispondere “come fai tu, a non averlo”.
21/07/2010
Io, stare insieme a due bambini bielorussi, una cosa che ho imparato, quest’anno, a parte il russo che adesso dire mare casa e gelato non mi frega nessuno, ho imparato, dicevo, soprattutto quest’anno, forse perché di bambini da Chernobyl quest’anno ne son venuti due, a dimenticarmi di me stesso, ho imparato, a non pensare ai miei bisogni e a pensare prima di tutto ai loro.
Allora succede che se decidi di andare al mare o al parco o a mangiare una pizza non lo fai mica per te, che magari ne hai voglia niente, anche della pizza dico, lo fai pensando al meglio per loro, al fatto che si divertano e siano felici. Il più possibile. E la cosa incredibile, che ho imparato, da questi due bambini bielorussi, non è tanto il fatto in sé di mettere in secondo piano i miei bisogni e mettere le loro esigenze prima di tutto, la cosa stupefacente, che ho imparato, è che una cosa del genere ti sembra del tutto normale, per essere felice.
Bloggo, un giorno di luglio.
20/07/2010
Sono passati molti anni, o forse pochissimi. Non so. Ogni volta ripubblico questa cosa che ho scritto nel 2003. Non per polemica, non ne ho voglia. Solo per ricordare, per ricordarmi che non c’è mai un solo punto di vista, e che la Storia è fatta di storie.
Io non ero a Genova, per il G8. Quel weekend l’ho passato tra autostrade ed aeroporti. Ciò che so e che non so dipende dai mass media, quelli “mainstream”, quelli della cui correttezza tanti dubitano.
Non ho voglia – non sono proprio dell’umore giusto, di questi tempi – di rivangare, di analizzare i pestaggi nelle scuole e gli assalti dei black bloc, i limoni finti del Cavalier Silvio Banana e le zone rosse.
Però, c’è chi lo fa per me. E mi tira fuori ricordi, ed i ricordi – come i sogni – non li puoi controllare: vengono a galla, e ti entrano nello stomaco senza chiedere il permesso.
Mio padre era carabiniere. Lo è ancora, a dire il vero, perchè i carabinieri rimangono tali a vita, e papà è in buona salute, grazie a Dio. Mio padre era carabiniere anche nel Sessantotto, e lo è stato anche in tutti gli anni a seguire. A Milano, un posticino tranquillo, come molti di voi sanno.
Io non so cosa ricordate di quegli anni. Io ero piccolo, ed i miei ricordi sono nitidi nelle sensazioni e confusi nei dettagli. Ma ricordo che mio padre usciva di casa prima dell’alba, e rientrava a notte fonda, e passava giorni interi a fare un servizio chiamato “di ordine pubblico”: in altre parole, decine di ore seduto su un camion, a presidiare piazze e viali nelle quali scorrevano le manifestazioni di quei giorni di cui io so solo per aver letto sui libri, a prendersi anche insulti e sputi.
Ricordo, saranno stati i primi anni Settanta, con quanta fatica mia mamma tentava di dissimulare la tensione quando si faceva sera, e mio padre tardava a rientrare a casa, e mi raccontava storie e mi leggeva fumetti perchè un bambino di sei anni lo devi proteggere, e come fai a spiegargli che le strade della città dove vive sono piene di pistole e spranghe.
Ricordo quella sera d’inverno, avevo dieci anni ed ero seduto sul divano insieme ai miei genitori a guardare la televisione. Ricordo che sullo schermo passò una fotografia, sapete, di quelle in bianco e nero, le fototessera le chiamano, ed era un volto che io non avevo mai visto. Ricordo che mia mamma sbiancò, e balbettò “Ma quello è Antonio” e sì, era proprio il suo cugino Antonio, carabiniere anche lui, saltato su una bomba dopo aver fatto sgombrare la piazza. Antonio, che è rimasto vivo per miracolo, che ha impiegato quindici anni per tornare ad una vita quasi normale, che ha il corpo pieno di schegge troppo piccole per essere estratte, che immagino, provando a sorridere della cosa, che suona quando passa sotto un metal detector e si schermisce dicendo “Sa, sono l’uomo bionico”.
Io so di essere stato fortunato, troppo piccolo sia per il Sessantotto che per il Settantasette, non ho potuto “vivere da protagonista” (ma quanti, poi, lo hanno fatto veramente?) quei giorni, quegli anni. Ma so di aver provato, nel piccolo del mio essere bambino, nel piccolo delle quattro mura della mia casa di periferia di Milano, una sensazione che si chiama paura.
So che se mio padre si fosse trovato su una camionetta, solo ed in mezzo a decine di ragazzi urlanti e mascherati, solo e di fronte ad un ragazzo che sta per tirargli un estintore addosso, so che se mio padre avesse sparato ed avesse colpito quel ragazzo, io sarei stato con lui. Vaffanculo, Carlo Giuliani, piango la tua morte, piango che tu non possa girare mano nella mano con la tua fidanzata, piango l’osceno dolore di tua madre e tuo padre, sputo su chi ha creato uno stato di guerra dove guerra non doveva esserci, ma io sarei stato con mio papà.
Ieri tante persone hanno scritto – in pubblico e in privato – per dire che My Own Private Milano è una bella cosa. Anch’io penso che lo sia. Un po’ per i motivi a tutti evidenti: belle fotografie, bei racconti, e una splendida veste grafica. Un po’ per motivi che invece sono visibili solo a chi lo ha fatto: è una cosa seria fatta per gioco e un gioco fatto seriamente. Ed è – ma questa è una cosa che a parole è difficile spiegare – una manifestazione di fiducia tra persone che spesso non si conoscono nemmeno, se non attraverso quel che si scrive per blog e social network. Non voglio dare nessun particolare significato a una cosa piccola quale MOPM è. Non ci voglio costruire sopra alcun massimo sistema. Dico solo che ogni tanto capita che uno butta lì un’idea con la quale altri – più bravi e scafati – sarebbero anche capaci di fare quattro soldi e trova chi dice “dai, ci sto” senza alcun retropensiero. E il risultato è quello, il rispetto di un patto non scritto, dove i meriti si suddividono e ci si sente parte di qualcosa più grande e bello e nobile della somma delle nostre pochezze.
19/07/2010
Capita che una sera, per una manciata di motivi qualsiasi, ti trovi a girare per la città nella quale sei nato e cresciuto e dove ancora vivi, rendendoti conto che la stai guardando con quella specie di curioso stupore che ti segue quando visiti un posto nuovo, non importa se questo sia una megalopoli americana sulle rive di un lago molto più grande di quanto la tua immaginazione mai ti avrebbe permesso di immaginare o un paesino della provincia emiliana dove il campo da baseball ha lasciato lo spazio a una distesa di prato irregolare.
Capita che ti venga la curiosità di sapere come alcune persone che tu conosci, nel modo irregolare e strano di questi tempi cosiddetti sociali, vedano la tua città – su cosa si sono fermati i loro occhi, quali luci hanno visto, che particolari hanno notato. E pensi che sarebbe bello provare a fare un esercizio di parole, pensi che si potrebbe provare a fare un racconto a due facce: Milano, fotografata dai non milanesi, e raccontata dagli indigeni.
La butti lì, e in due ore hai già venti persone che ti dicono “dai, ci sto”. Non perché sia una grande idea, né nuova. Forse, solo per la voglia di fare qualcosa insieme, a gratis. “My Own Private Milano” nasce così, in una sera di primavera passata a mangiare pane alle olive su una panchina di Corso Garibaldi, proprio dove c’è una vedovella, una fontana pubblica, una delle poche ancora rimaste. Venti fotografi, non milanesi, che un giorno hanno preso un’immagine di Milano. Venti scrittori, milanesi per nascita o per adozione, che un giorno hanno ricevuto una fotografia, e la richiesta di scriverci sopra qualcosa, qualsiasi cosa.
Quale sia il risultato non lo so. So che è stato bello farlo, so che è stato bello ricordare che questo è un bel posto, basta saperlo guardare, basta volerlo dire.
18/07/2010
Ti guardo mentre passi, alta, slanciata, sicura, le gambe lunghissime, le forme sode, i capelli perfetti, il bikini del colore giusto. Colgo un frammento della tua conversazione, il tuo fidanzato – come me – ti sente dire “nemmeno dieci minuti di sole in faccia, come cazzo è possibile”. Ed è come vederci tutti allo specchio, il tono sbagliato e inavvertitamente sguaiato, gente che dice cazzo perchè non sa dire altro, perchè non sa come altro dirlo, che non sa trovare né il momento né il tono, che non sa – che forse mai ha avuto, o che ha dimenticato – l’educazione, la forma anche di quel minimo sindacale di turpiloquio che ognuno vuole e può usare. E no, non è perché sei tanto bella e ancora giovane che sei affrancata da questo. Magari.
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