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La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla.
(Gabriel Garcia Marquez)

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    28/04/2013

    Muri rossi

    Filed under: — JE6 @ 11:00

    Sono ore che l’uomo sta seduto su quella panchina. Ogni tanto fa un piccolo movimento, come per sgranchirsi, accavalla una gamba, poi l’altra, a volte si passa la mano tra i capelli corti in un gesto più meccanico che necessario. Guarda in avanti, tenendo di fronte a sè la piccola piazza semicircolare, nella quale ogni tanto passa una macchina, o uno scooter. La donna lo ha visto per la prima volta quando è uscita di casa per andare a fare la spesa della settimana, in un sabato pigro e di sole. Lo ha notato perché non ha l’età di chi non ha di meglio da fare che stare seduto su una panchina, e nemmeno quella di chi su una panchina aspetta qualcuno. Era ancora lì quando è rientrata, con due sacchetti e il sapore del cappuccino sulle labbra. Nel primo pomeriggio la donna si è affacciata alla finestra e lo ha trovato al suo posto, così come i tre alberi della piazza, la panchina, il portone di legno della casa costruita da una banca in tempi lontani e chissà se felici. E’ scesa, la donna, ed è andata a sedersi su un’altra panchina, non quella più vicina a quella sulla quale l’uomo sta passando la giornata. Tiene in mano un quaderno e una matita, fissa l’uomo che guarda i muri della piazza e disegna. Dopo un tempo che nessuno dei due sa quantificare l’uomo parla, senza spostare lo sguardo. Venga qui, dice. E la donna si alza, si avvicina, si siede vicino all’uomo, senza guardarlo in faccia. Una volta facevo il fotografo, dice l’uomo. Fino a quando non è iniziata la malattia e sa, le foto mosse non piacciono a tutti; così vado nei posti che mi piacciono e mi fermo a guardare, perché sta tutto lì sa, nel guardare le cose e vederci dentro. Non posso fare altro, guardo. Poi torno a casa, mi siedo sul divano, chiudo gli occhi e rivedo tutto, anche quello che non sapevo di aver visto, tutte le fotografie che ho scattato anche se non avevo la macchina. E’ quello che succederà anche a lei tra un po’, quando riguarderà il disegno che ha fatto oggi; non credo di essere un soggetto tanto interessante, continua l’uomo, ma sono convinto che troverà delle sorprese su quella pagina. La donna non dice nulla per un po’, imbarazzata. Posso farle una domanda, si decide infine a chiedere. L’uomo fa un cenno con la testa. Cosa ha fissato per tutto il giorno, io vedo solo dei muri. L’uomo fa un mezzo sorriso, e accavalla per la centesima volta la gamba destra. Proprio quelli, risponde. I muri. Le pieghe delle scrostature dell’intonaco, il rosso di quei muri che non si trova in nessun altro posto del mondo. Ho guardato quelli. La donna chiude il quaderno. Muri, mormora. Muri rossi, risponde l’uomo, di un rosso che si trova solo qui, a casa sua. Vuole che l’accompagni a casa, chiede la donna alzandosi. Non c’è bisogno, la ringrazio. Tornerà? Forse sì, mi piace questo posto, adesso ho il tempo per fermarmi, magari la prossima volta le chiederò di offrirmi un caffè, e di farmi vedere il ritratto che mi ha fatto oggi. Arrivederci, dice la donna. Arrivederci, buona sera.

    25/04/2013

    V.M.

    Filed under: — JE6 @ 20:28

    Giorgio!
    Ah, oh, Clio, ciao…
    Cosa stai facendo?!
    Niente, Clio, niente, davvero.
    Guarda che ti ho visto.
    Sì.
    Stavi guardando quella robaccia.
    Clio, è per lavoro.
    Lavoro?! Guardare Letta che parla con quei due lo chiami lavoro? Dio mio. Sei un pervertito.
    Clio! Sei impazzita?
    No, guarda, io non ne posso più. Dovremmo essere a Capri seduti a un tavolino a bere un caffè, e invece siamo qui, io in cucina e tu a guardare i politici dal buco della serratura, neanche fossi un ragazzino.

    Io esco e vado al cinema, sono stufa. Tu resta pure qui a sbavare sulla Lombardi.

    Neanche fosse la Boldrini, che almeno potrei capire. Che schifo.
    Clio, per piacere.
    Ciao Giorgio, ci vediamo stasera. Non aspettarmi alzato, farò tardi.

    23/04/2013

    I compiti

    Filed under: — JE6 @ 18:42

    Giorgio.
    Dimmi.
    “Dimmi” un corno. Quante volte ne dobbiamo parlare ancora?
    Clio, per cortesia. Davvero, non è il momento. Noi qui ne avremo ancora per un po’, non moltissimo ma nemmeno poco. Fatti portare la cena, poi mettiti sul divano e guardati un po’ di televisione. Appena abbiamo finito arrivo.
    Non è educativo.
    Cosa, tesoro?
    Non fare il finto tonto. Lo sai benissimo. Non è educativo che tu ti metta a fare i compiti dei ragazzi.
    Clio, ascolta. Abbiamo perso il conto di quante volte sono stati bocciati. Mi sono stancato. Mi ci metto io, faccio quasi tutto poi gli metto la testa davanti al foglio, gli faccio seguire col dito per filo e per segno dalla prima riga e poi gli faccio completare gli esercizi.
    Ma così non impareranno mai.
    Perché, secondo te sono capaci di imparare qualcosa?
    Non è giusto.
    Sarà, e sarà pure colpa nostra e di come li abbiamo tirati su, ma questi senza aiuto non passano nemmeno gli esami della Scuola Radio Elettra.
    Esiste ancora?
    La Scuola Radio Elettra? Credo di sì, dovrei chiederlo a Bossi.
    Io non so cosa ti è preso, davvero.
    Clio, semplicemente mi sono rotto i coglioni. Succede.
    Non ti azzardare a farti sentire parlare così. Vergognati.
    Io mi devo vergognare? Io? Sei sicura?
    Questa storia deve finire, Giorgio.
    Finirà presto, Clio. Spero. Adesso vai e fa’ quel che ti ho detto. Ci vediamo dopo.
    Cerca di non far tardi.
    Va bene.
    Ciao.
    Ciao.

    22/04/2013

    Devo portare i ragazzi a scuola

    Filed under: — JE6 @ 10:59

    Giorgio.

    Giorgio.
    Clio, è presto. Non sono ancora le sette, torna a dormire.
    Alla nostra età ci si sveglia presto. Dove stai andando?
    Come se non lo sapessi.
    Giorgio, tu non ti rendi conto.
    Clio, mi rendo conto benissimo. Ma quando hai famiglia funziona così.
    Così come, vorrei sapere.
    Così, e basta.
    Giorgio, guardati allo specchio. Hai quasi novant’anni, e ce li ho pure io. I nostri amici, i nostri compagni di scuola sono morti tutti.
    Clio, lo so. Pensi che non mi vedo allo specchio?
    E quindi?
    Clio, torna a dormire. Devo portare i ragazzi a scuola.
    Ma sono grandi, dovrebbero saperlo fare da soli.
    Clio.
    Giorgio.
    Torna a dormire, ci vediamo stasera.

    20/04/2013

    Ripescaggi

    Filed under: — JE6 @ 22:10

    C’è una cosa che capita almeno una volta nella vita a chiunque tifa una squadra: vederla andare male, così male che a un certo punto inizi a irriderla e le auguri che vada peggio ancora, dopo la quinta sconfitta invochi la sesta, e dopo la sesta speri nella settima e poi nella retrocessione, nella caduta rovinosa e dolorosa. Lo sai che l’anno successivo soffrirai come una bestia, molto più di quanto tu non lo stia facendo ora, ma non importa: qui e ora deve succedere il peggio, e ti diverti persino a guardare il crollo: è un piacere perverso, ma pur sempre un piacere. Non credo di essere il solo tra gli elettori del PD ad averlo provato, questo piacere, durante gli ultimi due mesi e in particolare durante gli ultimi due giorni (ogni piacere ha un suo acme, no?): la fantastica serie di sciocchezze che hanno portato prima a perdere elezioni già vinte e poi a cercare con una disperazione via via più confusa il modo per fare un proprio governo (o meglio: un governo guidato da un proprio esponente, che in effetti è cosa parecchio diversa) assomigliando terribilmente al bambino di cinque anni che prova a giocare ai quattro cantoni con dei dodicenni; la spettacolare inadeguatezza di tutti i suoi rappresentanti, nessuno escluso, giovani, vecchi, bersaniani dalemiani lettiani renziani veltroniani prodiani tutti, tutti, tutti dotati di una rilucente incapacità di dire qualcosa che non fosse l’esausta ripetizione di formule imparate a memoria, dobbiamo impostare un ragionamento, la situazione richiede un’assunzione di responsabilità, trovo singolare che, mi adopererò con tutte le mie forze per, non possiamo spacciare per buone le ricette di vent’anni fa, tutti mancanti di quel minimo sindacale di senso della rappresentazione che gli facesse capire che c’è ancora tanta gente – quorum ego, cazzo – disposta a credere a una loro balla purché detta con sicurezza e proprietà, tradiscimi ma fallo con eleganza, per una sintassi superiore potrei anche perdonarti la tua impossibilità di essere leader o il tuo esserlo troppo. Poi arriva il momento in cui il piacere svanisce, ti siedi sul divano tenendo in sottofondo il borbottio di Mentana che ormai fa parte del tuo arredo di imperfezioni casalinghe, come un rubinetto che sgocciola per guasto e pigrizia, ed è quello il momento nel quale vieni assalito dal timore – il timore che tutto questo sia destinato a non servire perché una commissione disciplinare d’appello tanto benevola quanto atterrita cancelli la retrocessione, provveda a un ripescaggio dell’ultimo minuto e riporti la squadra là dove sai che non deve, che non merita di stare, il timore che qualcuno, con una voce falsa come una moneta fuori corso, imposti un ragionamento, richieda un’assunzione di responsabilità, trovi singolare che.

     

    18/04/2013

    I quattrocento ostacoli (avevo torto)

    Filed under: — JE6 @ 09:36

    C’è una gara, tra le molte dell’atletica leggera, che si dice essere la più dura in assoluto. I quattrocento ostacoli, un giro di pista fatto alla massima velocità con in mezzo un certo numero di ostacoli da saltare. Dicono che ti ammazzi, quella gara: in senso figurato, certo; dicono che l’ultimo rettilineo, quando hai i muscoli pieni di acido lattico e ci sono ancora due o tre ostacoli alti un metro da affrontare senza rovinarci sopra sia un supplizio inenarrabile. E’ una gara che a guardarla spezza il cuore, vedi questi ragazzi che partono come schegge, che saltano leggeri, puliti, senza un’incertezza o una sbavatura, ogni trentacinque metri non devono nemmeno accorciare il passo, staccano da terra e a terra ritornano senza fare una piega; va avanti così per duecento, duecentocinquanta, a volte trecento metri. Poi il dramma, alla fine dell’ultima curva, all’inizio dell’ultimo rettilineo. Lì c’è sempre qualcuno che si pianta, quello che è partito troppo forte, quello che senza rendersene conto ha fatto un passo più corto di venti centimetri e perde il riferimento, quello che la fatica viene fuori tutta insieme come un ladro che sbuca da un angolo e ti dà una botta sulla nuca; quello che, al penultimo o – peggio ancora – all’ultimo ostacolo, cade.
    Negli ultimi due mesi ho guardato Pierluigi Bersani percorrere quell’ultimo rettilineo. E’ uscito dalla curva con il volto sereno di uno che sa cosa sta facendo, con la sicurezza di avere ancora tutte le energie necessarie a correre i cento metri che restano e pure qualcuna in più. Io ero sicuro che Bersani aveva tutte le capacità per vincere, ero sicuro che avrebbe vinto. Non stravinto, magari. Ma vinto sì, e anche bene. Avevo torto. I quattrocento ostacoli non sono trecentocinquanta o trecento. Sono quattrocento. Li devi correre tutti, li devi correre bene dal primo all’ultimo, e non devi sbagliare nulla. Lui non ne è stato capace, e a me dispiace, e molto: l’ho visto rallentare prima, e poi confondersi, e colpire col piede il penultimo ostacolo, atterrando barcollante per poi franare in pieno sull’ultimo. E’ ancora in piedi, il Bersani sul quale avevo puntato i miei pochi Euro, ma la gara l’ha persa, e l’ha persa male. Avevo torto.

    PS – Avevano ragione gli altri? Quelli che avevano puntato su un altro quattrocentista? Se la metafora atletica fosse sostenibile fino in fondo, la risposta sarebbe sì, certo, avevano ragione gli altri. In realtà io credo di no, continuo a credere che anche loro avessero torto. In fondo, questa è la cosa che mi rattrista di più.

    17/04/2013

    La libertà è partecipazione

    Filed under: — JE6 @ 13:49

    Il bello delle dittature è che puoi dare la colpa a qualcun altro.

    16/04/2013

    Daccapo

    Filed under: — JE6 @ 16:26

    Ogni tanto – non sempre, non c’è una regola: se ci fosse sarebbe una lista infinita di eccezioni – la cosa davvero difficile non è iniziare da zero, anche per costrizione. E’ riprendere, esattamente dallo stesso punto nel quale ci si era fermati.

    12/04/2013

    Valigie

    Filed under: — JE6 @ 19:00

    Parlo al telefono con un’amica che a un certo punto dice “com’è che ho tutti questi amici che vogliono andare o restare all’estero?”. Penso di descriverle la condizione della gestione dei bagagli a Malpensa come esempio definitivo, poi mi limito a un “perché ci si sta bene”, e cambiamo discorso.

    11/04/2013

    Stories of the Bund – Xie xie

    Filed under: — JE6 @ 16:30

    Dicono che uno dei segni, delle prove dell’amore non sia quello di non vedere i difetti dell’altro, ma di averli ben chiari e di non considerarli come qualcosa di così grave. Qualcosa che fa parte in un insieme più grande, che è quello – appunto – che ami. E allora adesso che sono qui in aeroporto ad aspettare di salire sull’aereo che mi riporta a Milano posso dire che di città ne ho viste tante, alcune orribili ma tante magnifiche anche fuori da quei tre o quattro chilometri quadrati che lasciano ogni turista con la bocca aperta e gli occhi sbarrati dallo stupore e dalla meraviglia, ma che un posto come Shanghai, una città grande più di tante nazioni ma fatta di un miliardo di microcosmi, lucente e sporca, rumorosa, incasinata, fatta di tacchi a spillo e capelli mal tagliati, interiora di pesce e Porsche e aria irrespirabile e ciliegi fioriti e bambini bellissimi, un posto vivo nel senso più vero della parola non l’ho mai visto, né New York né Chicago né Londra né Roma, e so che ne ho nostalgia già adesso che ancora sono qui e non so se avrò mai la fortuna di tornarci un’altra volta per non riconoscerla o per trovarmici male o per rimanere ancora una volta fermo in mezzo a un milione di persone che camminano, a guardarne le luci, a sentirla pulsare come l’arteria di un ragazzo di sedici anni. Xie xie Shanghai, grazie, I will miss you, I will miss you so much.