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30/11/2008
Secondo Luca, Veltroni non dovrebbe avere altri interlocutori ufficialmente titolati al contraddittorio al di fuori di coloro che lo hanno sfidato (ehm) alle primarie del PD. In attesa di un ritorno sulle scene di Clemente Mastella, fiero avversario veltroniano, mi permetto di far notare che, al netto di un sano senso di disciplina per cui ad una decisione della segreteria dovrebbe conseguire un coerente comportamento di tutti gli altri, non si vede perchè l’espressione di una posizione diversa da quella del segretario dovrebbe essere appannaggio solo di alcuni (ed eviterò di sottolineare che non si capisce perchè le opinioni degli sconfitti alle primarie dovrebbero avere più valore di quella di altri: a rigor di logica, e ricordando le percentuali bulgare di consenso da costoro conseguite in quell’occasione, queste opinioni dovrebbero avere ancora meno valore in quanto pubblicamente screditate).
Wittgenstein
28/11/2008
Questa è una novella a puntate scritta a quattro mani.
Le puntate precedenti le trovate qui.
7. Come un film in bianco e nero visto alla tv
[Lui]
Mi piace il mare in questa stagione. Mi piace che non ci sia quasi nessuno in giro, vedere sulla spiaggia pezzi di legno marcio e impronte di gabbiani, mi piace guardare i negozi chiusi e l’aria da sopravvissuti di quei pochi che hanno il coraggio di alzare le serrande, mi piace ascoltare il silenzio.
In silenzio passiamo metà del pranzo, come se ognuno si stesse riprendendo da pensieri strani e faticosi, guardando fuori dalle vetrate di questo piccolo locale che mi sembra aperto più per pigrizia che per accogliere clienti. Non so cos’ha pensato lei, quando si è azzittita in macchina e non ha più spiccicato parola per una mezz’ora buona. So cos’ho pensato io, e tanto mi basta. L’altra metà del pranzo la passiamo parlando del più e del meno, rilassandoci per quanto ci è possibile. Lei mi prende in giro perché capisce benissimo che mi sto godendo il momento e al tempo stesso mi sento in colpa, e controllo la posta ogni trenta secondi, e dico tre volte che forse dovremmo risalire in macchina e andare dove il resto dell’azienda ci aspetta. Io la ascolto parlarmi della sua migliore amica, delle serate in palestra per combattere la cellulite, della collega freddolosa. Scopriamo di essere enormemente diversi e scopriamo che abbiamo un debole per lo stesso scrittore. Pago il conto, stai tranquilla lo metto in nota spese, e usciamo per fare due passi. Nel momento in cui ho l’impressione che stia per prendermi sotto braccio, le squilla il cellulare. Guarda il nome di chi chiama, risponde con un “ciao” strano, un misto di imbarazzo, calore e scocciatura. Si stacca un po’, io giro la testa, faccio finta di guardare prima il mare e poi le vetrine dall’altra parte della strada, cerco di capire chi è senza far vedere che sto ascoltando. Che sia un uomo è chiaro, chi sia non lo so. Decido di fare un paio di telefonate anch’io, cose di lavoro, più per tenermi occupato che per altro. La collega svedese, quelli delle P.R. di Milano. Alice continua a parlare al telefono. Sono così stupido che mi sento geloso, come se qualcuno stesse provando a rubarmela in queste ore ritagliate alla rigida pianificazione del tempo: sono così stupido che la sento mia, almeno per oggi, anche se solo sei ore fa era chiaro come il sole che non mi sopportava. Non so se parlava sul serio quando diceva “fermiamoci qui questa notte, al meeting possiamo andare domani mattina”. Adesso, mentre la guardo da una decina di metri di distanza mentre parla al telefono, vorrei solo accendere il motore, andare dove dovevamo andare e farla finita.
[Lei]
Il mare in questa stagione è di una tristezza infinita. Credo sia il panorama desolato, il fatto che in giro non c’è nessuno, il vento che soffia senza troppa decisione. C’è elettricità nell’aria, la posso sentire mentre passeggio con lui sul lungomare. C’è troppo silenzio. Si direbbe quasi che tra di noi c’è qualcosa, e che basterebbe poco per farsi avanti e coglierlo. Cosa, io non lo so. Come coglierlo, nemmeno. Soprattutto, non so se ne valga la pena. Forse mi va bene tenerlo così, forse è solo per adesso.
Intanto camminiamo e non mi sono mai sentita così sospesa. E’ colpa dell’elettricità, sicuro. Per questo butto lì una frase che a ben vedere potrebbe risultare fuori luogo. Per questo accumulo cazzate su cazzate, lo prendo in giro, lo faccio sorridere. Perché mi sento come se potessi fare tutto, come se le possibilità fossero infinite, così come le promesse che mi sembra di leggere tra le righe. Un lungomare spoglio che aspetta solo l’estate. E, come al solito, mi riduco a inanellare una serie di stupidaggini.
Forse il meglio di me l’ho già dato.
Forse lui ha già dato il meglio di sé, e anche la situazione.
E infatti, squilla il telefono. “A rapporto”, penso. E se c’è una cosa che non riesco a fare è mascherare l’imbarazzo. Mi allontano, parlo. Ritorno da lui. Avrei voglia di comprarmi un gelato per il solo piacere di sbrodolarmelo addosso.
Ma così non si fa, Alice, si usa il tovagliolo.
Sali in macchina, da brava.
27/11/2008
Vado a memoria: una donna su tre abortisce prematuramente, alla prima gravidanza.
Ci sono giorni che certi corridoi di ospedale sono pieni di donne con l’espressione vuota che provano a trovare consolazione nel constatare di non essere da sole, di non essere quelle con “qualcosa che non va”; a volte sono seguite da compagni smarriti, che vorrebbero fare qualcosa oltre ad andare a prendere un caffè alla macchinetta e ad accarezzare una mano, che vorrebbero poter provare lo stesso dolore ma non ce la fanno, semplicemente perchè non possono.
C’è chi tiene segreta la propria gravidanza: per scaramanzia, ma anche per un calcolo egoistico che mi sento di sottoscrivere senza il minimo dubbio: perchè sai cosa può succedere, e siccome è già dura realizzare che il bambino che avevi iniziato a sognare, a immaginare non nascerà, la pur sincera compassione altrui non farebbe altro che moltiplicare il dolore. Allora, meglio tacere, parlare solo se e quando quelle che si chiamano freddamente “probabilità di successo” cominciano a diventare consistenti.
C’è invece chi condivide da subito la propria condizione, e i propri sentimenti: gioia, ansia, dubbio, eccitazione. Un po’ per questione di carattere, un po’ per sfidare le paure con l’ottimismo della speranza: “aspetto un bambino, sai”. A volte va bene, a volte no. E quando non va bene, a volte trova comprensione, empatia, affetto, calore; a volte, invece, trova distacco, indifferenza, magari sarcasmo. Aprirsi agli altri è una scommessa, si vince e si perde, e senza una regola che faccia prevedere l’esito.
Poi si riprende, si fa un respiro profondo e si torna a camminare, ad alzarsi la mattina senza nausee, a truccarsi per andare in ufficio, a spingere il carrello della spesa, a guardare un dvd, a telefonare alla mamma, a sfogliare un catalogo per le prossime vacanze. Si fa finta di dimenticare, e non si dimentica mai.
Federica Mogherini
26/11/2008
La linea editoriale di questo blog è salva.
Repubblica.it
Ieri ho litigato con un’amica per questo post (peraltro, non è stata l’unica a sentirsi chiamata in causa – il che, per certi aspetti, mi consola). A me litigare non viene bene, e se ho poco tempo mi viene ancora peggio. Comunque, non è questo che importa (qui). Il fatto è che viviamo tempi sciatti. Poveri, e non per la crisi economica. Poveri di dignità, di spessore interiore, di senso. Poveri di tempo, e di attenzione. Ora, io non credo che uno si debba necessariamente alzare dal letto avendo l’obiettivo di rendere il mondo migliore; però credo che debba sforzarsi di fare al meglio quello che può: e soprattutto quello che sa fare bene. Se ha la possibilità e la capacità di parlare e scrivere bene, che lo faccia; sembra una scemenza, e forse una singola frase (chessò, “sono preso male”), isolata, lo è: ma alla lunga io credo che sia uno sforzo che si ripaga. Che ripaga se stessi, ma che arricchisce anche tutti gli altri, tutti coloro con i quali si ha a che fare. Viviamo di gesti, ma viviamo anche di parole: e che chi le sa usare si sprechi, questo è un piccolo reiterato delitto del quale tutti indistintamente finiamo per pagare il prezzo.
[1158 caratteri per dire “mi dispiace, l’ho scritto perchè a te ci tengo; pontifico, ma sulla sintesi c’è ancora parecchio da lavorare]
25/11/2008
PC – Nonna, slaccia quel bottone del maglione
NPC – Ma no, F, dai. Ho freddo, e poi non sta bene su una donna della mia età
PC – Lo sapevo. Tu non ti sai valorizzare.
A me, ogni volta che sento l’espressione “parla come mangi”, vengono in mente quelli che mangiano cinese, o giapponese, e li collego a Pippo Baudo che sostiene che bastano cinquecento parole per parlare un italiano decente.
[Disclaimer: cerchiamo di non prendere tutto alla lettera: è che le persone che potrebbero parlare e scrivere come Dio comanda, avendo capacità superiori a quelle del 90% dei propri concittadini, e se ne vengono fuori con le espressioni da sedicenni trogloditi cresciuti a Mars e T9 mi fanno venire un nervoso, ma un nervoso]
24/11/2008
Entrare nella vita di una persona è un po’ come entrarle in casa. Ti può capitare di trovare la porta aperta, fai un primo passo, poi magari ne fai un altro e un altro ancora, e quasi senza accorgertene ti trovi – col consenso del padrone – a girarla tutta, e ti siedi sul divano, e guardi fuori dalla finestra, e dai un’occhiata nemmeno troppo imbarazzata dentro quel cassetto lasciato mezzo aperto. Capita che visiti quella casa ogni giorno, a volte ti ci fermi a lungo e a volte un po’ meno, resti a mangiare, parli del più e del meno e parli anche di qualcosa che va al di là del come stai e cos’hai fatto oggi. Ma il tempo passa, e non ci sono molte possibilità: o in quella casa ti fermi, oppure – impercettibilmente ma inesorabilmente – passi dallo starci un giorno a starcene mezzo, e poi tre ore, e poi due e insomma ci siamo capiti. Il cassetto rimane chiuso, sull’appendiabito vedi una giacca che non è tua e nemmeno del padrone, e allora fai un passo indietro, e poi un altro e un altro ancora, ti inventi un impegno, una telefonata da fare, non vuoi essere di troppo, non vuoi essere inopportuno, non vuoi fare domande. Essere amici, voler bene – e tanto – ad una persona significa saper uscire, pensi. Ed è quello che fai, accompagnando la porta.
Penso che dovrei davvero allargare le mie letture legate alla politica, andare un po’ più in profondità vincendo anche quella tendenza ad annoiarmi facilmente della quale non vado certo orgoglioso. Penso che dovrei farlo perchè sarebbe giusto – e anche per togliermi di dosso questa fastidiosa sensazione in base alla quale la politica, soprattutto di quella che nel bene e nel male continuo a sentire come la “mia” parte, si sta riducendo ad un costante chiacchiericcio – D’Avanzo versus Sofri, Simoni versus Soncini, i giovani, le poltrone, le primarie, i pizzini. Perchè, insomma, Novella 2000 è un’altra cosa, e almeno lì fanno vedere le tette.
23/11/2008
A volte basta proprio poco – quattro passi lungo un marciapiede, una frase inutile detta come riempitivo – per rendersi conto dell’ovvio, e cioè di quanto l’amicizia sia una cosa bella ma faticosa, uno slalom su un muro di ghiaccio dove le porte sono fatte di paure, ritegni e vergogne e dove è molto più facile inforcare che arrivare in fondo senza danni ed errori.
A volte basta proprio poco – sedere su seggiole che ricordano una sala d’aspetto, una frase senza nomi detta stando appoggiati ad una ringhiera – per rendersi conto dell’ovvio, e cioé di quanto l’amicizia sia una cosa impegnativa ma che dà forza e persino serenità, una fortuna nella quale è bello pensare di avere un piccolo merito.
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