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29/06/2013
Sulla destra, rispetto all’entrata, le famiglie sudamericane preparano la giornata di festa – i tavoli, le sedie pieghevoli, un paio di ombrelloni per i più anziani, i palloni e la carne grigliata. Sulla sinistra, più in lontananza, i campi di pallavolo ricavati all’interno del parco, e la stradina che lo costeggia sulla quale passano famiglie, e pensionati, e ciclisti pigri a dieci all’ora. Di fronte, dall’altra parte della strada, il mais coltivato. D’inverno, se c’è nebbia le tombe bianche sembrano dei denti che sbucano dal terreno; quando c’è il sole, non importa la stagione, è una macchia di un verde diverso da tutti quelli che lo circondano. Ci vengo due o tre volte all’anno al Milan War Cemetery. E’ un piccolo quadrato su un lato del Parco di Trenno, curato come tutti i cimiteri di guerra del Commonwealth, con l’erba bassa e soffice, le pietre pulite, i fiori freschi. Ci sono quattrocentodiciassette tombe, più di trecento di militari inglesi, e poi canadesi, sudafricani con le scritte in afrikaans, neozelandesi, un cipriota, due italiani, due cechi. Un paio di dozzine di militi ignoti, definiti “A soldier of the 1939-1945 war”, a volte con una data di morte, per tutti la scritta “Known unto God”. Hanno qualcosa di particolare, i cimiteri di guerra. Non sono le età dei morti, anche se non puoi evitare di fermarti a immaginare la faccia di un ragazzo di diciannove anni che cade bruciato dentro un bombardiere abbattuto dalla contraerea. Sono altre cose, almeno per me. Le date, ad esempio. La gente muore tutti i giorni, si sa. Ma questi uomini sono morti quasi tutti in alcuni giorni. Chissà cosa sono stati il 12 e il 13 ottobre del 1944, ad esempio, ché tutti gli aviatori portano quelle date sulle lapidi, chissà cos’era il cielo sopra Milano. E le scritte. Non sono come tutte le altre, le scritte sulle tombe di questi posti. Ci sono, come in tutti i cimiteri, frasi che vengono dal Vangelo, e i riposa in pace (che a dirsela per bene, e a riascoltarla, è già di per sé una frase di una tenerezza quasi dolorosa: riposa, e fallo in pace. Cosa potresti augurare di meglio a qualcuno che ami?). Ma ce ne sono altre che se ti sbarazzi per un attimo dalla corazza di ironia e cinismo con la quale ci difendiamo dalla vita per quasi tutte le nostre ore da svegli non riesci a non sentirti strappare qualcosa dentro. “Hai sofferto tanto, hai avuto poche gioie, non hai meritato quel che ti è toccato sopportare”. “Ringraziamo il nostro Dio per ogni ricordo di te”. “Non ero qui per vederti morire, per sussurarti una parola o per darti un bacio di addio” (andate, e leggetela in inglese, c’è una rima, c’è una musica dentro”. Ce n’è una che mi spezza ogni volta che vengo qui, dice “Camminiamo al tuo fianco John, nel magnifico giardino dei ricordi. Buona notte” e chissà chi l’ha voluto quel “good night”, se una madre pensando alla ninna nanna che cantava a suo figlio per farlo addormentare, o una moglie che allunga la mano nel letto, lo trova vuoto e tutto ciò che può fare è accarezzare l’altro cuscino come se lì ci fosse la testa di un uomo che non tornerà più, e che ha solo bisogno di riposare, e di farlo in pace. Quando esco di solito mi riguardo intorno, prima di salire in macchina, e vedo gente, gente viva, gente che prepara da mangiare, che gioca, che parla al telefono, e mi sembra che sia la cosa giusta perché ci vuole qualcuno che a quei ragazzi faccia compagnia.
Sei pronta?
No.
Capisco.
Ma se sei in ballo devi ballare.
Sì.
Ho le ultime cose da preparare, ma dimenticherò sicuramente qualcosa.
Non sarà niente di importante.
Ci sentiamo, no?
Certo. Skype ce l’abbiamo tutti.
Sì. Quando torno vorrei trovare la cassetta della posta piena di cartoline.
Ti scriveremo, ci scriveremo.
Non scrive più nessuno. Ma mi farebbe piacere.
Te lo prometto. E lo dirò agli altri.
Ci conto.
Contaci. Adesso vado.
Sì, anch’io ho delle cose da finire. Grazie.
E di cosa.
Lo sai.
Va bene, lo so. Vieni, fatti abbracciare.
Eccomi qui.
Stai bene, okay?
Anche tu.
Ciao, buon viaggio.
Ciao, ci sentiamo presto.
27/06/2013
Questa mattina dovevo fare una telefonata, una cosa di lavoro. Digito le prime tre, quattro lettere, eccolo lì il cognome da chiamare, e poco sopra lo stesso cognome, giusto una vocale in più (adesso che ci penso: stessa città, forse stesse origini, vai a sapere), un attimo di smarrimento per realizzare che no, ma quell’uomo non c’è più, è morto.
Le rubriche sono così, stratificazioni di aziende – colleghi, fornitori, clienti, vediamo-se-quest’anno-riusciamo-a-firmare-il-contratto – e parenti e amici, e amici degli amici lungo i sei gradi di separazione che ti dividono da chiunque, gente che non senti più da due o tre vite fa, che chissà quanti numeri ha cambiato nel frattempo ma intanto il nome tienilo lì che può sempre servire, così, per anni e anni da un backup all’altro, Spoon River portatile in 3G – e il tuo nome fa la stessa fine in cento altri telefoni, e questo chi cazzo era, il nome mi dice qualcosa, chissà se è ancora vivo, cosa fa, dove sta.
26/06/2013
Ogni tanto penso che sarei stato un buon romano, o buon fiorentino, o un buon shanghaiese. Penso che se mi fosse toccato in sorte viverci mi ci sarei trovato bene – ci sarebbero state cose che non avrei sopportato e mille altre invece che mi sarebbero piaciute. Mi adatto, mi adatto facilmente, mi adatto in fretta. Forse sono solo di bocca buona, quando salgo su un treno ho sempre il Kindle con me, inizio a leggere e non siamo ancora usciti dalla stazione che stacco gli occhi dallo schermo e li piazzo fuori, e mi piace tutto, guardo tutto come un bambino di cinque anni, mi piace guardare la pioggia, se il cielo è grigio rimango affascinato dall’uniformità, e se è azzurro dal contrasto dei colori, mi piacciono i palazzi che danno sui binari, mi piace la pianura nella quale sono nato, mi piacciono i fiumi, mi piacciono i capannoni industriali, mi piacciono gli sfasciacarrozze, le macchine ferme nei campi, le rotoballe, i ponti – e lo stesso succede quando sono in una città, mi piace vedere downtown e i palazzi signorili, mi piacciono le corti, mi piace vedere le periferie (e finire in posti conosciuti solo per lo spaccio di eroina e i vagoni blindati che andavano verso i campi di sterminio), mi piace vedere le luci, le vetrate, le insegne luminose e mi piacciono i marciapiedi sconnessi, i ponti traballanti, i gasometri, le cascine in rovina. Mi è piaciuto morire di umidità a Orlando, sono rimasto a guardare la notte nella stazione della Schnellbahn di Ruesselsheim dove non c’è altro se non la gigantesca sede e fabbrica della Opel e mi è piaciuto pure quello, lo ricordo bene ed è un ricordo piacevole. A volte mi chiedo cos’ho che non va, poi penso al prossimo viaggio.
22/06/2013
E’ solo quando sei immensamente bravo nel tuo lavoro, in quello che fai, è solo quando lo possiedi fino al suo nucleo, all’atomo più profondo e nascosto, è solo in quel momento e in quelle condizioni che quando ti chiedono come diavolo hai fatto a giocare male per settimane, a essere messo da parte e poi, nel momento più difficile, quando la pressione che c’è intorno schiaccerebbe chiunque tranne te e quei pochissimi fatti del tuo stesso materiale, togliendogli il sonno, l’appetito, il fiato e la lucidità, e poi entrare in campo, giocare la partita decisiva e fare ciò che sai e farlo al meglio, con la precisione chirurgica di chi sa, tu puoi rispondere “it’s better be timely than good”.
17/06/2013
Forse i giorni di ferie migliori sono questi, quelli imprevisti e non istituzionali. Quelli dove affronti gli scatoloni di tanti traslochi di ufficio, e ti trovi immerso in vecchie agende e biglietti da visita e nomi che solo in parte sono sopravvissuti al tempo. Quelli nei quali ti impolveri fino al midollo, e rifai scatoloni da portare in discarica. Quelli che ormai sono a cinque minuti, vado a mangiare al laghetto dei pescatori – e non trovi solo i pensionati con la pelle arrossata dal primo sole vero della stagione, ci sono i camionisti, e gli operai della zona, perché vuoi mettere mangiare stando all’ombra e guardando l’acqua azzurra della cava. Quelli che vedi il grano, le balle di fieno, e l’erba ancora verde di tutta la zona agricola che circonda la città. Quelli che se non ricordo male qui c’è la stradina che passa tra i campi e arriva a Gaggiano, giù i finestrini e quando arrivano quei tre secondi infiniti di “down in Jun-gle-land” portare il volume al massimo e tenere il tempo con la mano. Quelli che le puttane con l’ombrellino giallo, e il Naviglio Grande scorre sotto i ponti dai quali i ragazzi si tuffano in estate per farsi vedere da quelle con le quali ci stanno provando. Quelli che al resto ci pensiamo domani.
14/06/2013
Se soffrite anche voi di quella malattia che vi porta a seguire la politica di questo scombinato paese, potrebbe esservi capitato di leggere negli ultimi giorni dell’arrivo di una nuova rivista, o meglio della nascita della sua versione cartacea. La rivista si chiama Left Wing, se non la conoscete dovreste conoscerla, qui il Direttore spiega come e perché, e qui trovate l’indice del numero che tra non molto arriverà in libreria (qui, se avete trenta euro da investire, potete persino abbonarvi): quando arrivate a Cara Left Wing sappiate che si tratta di una letterina al Direttore scritta dal sottoscritto, in prosecuzione del suo tentativo di trasformare un consesso di menti pensanti nella redazione di Cioè.
PS – Il titolo del post l’ho preso da Marta, che spiega meglio di Europa e dell’HuffPost cosa sia Left Wing. Ciao, disturbo? è l’attacco tipico delle chat o delle telefonate del Direttore, ed è uno dei motivi per cui non riusciamo mai a dirgli di no (e perchè mai, poi).
11/06/2013
Sono anni che lavoro in posti dove non viene richiesto un abbigliamento particolarmente formale. Non ho bisogno di andare in ufficio, quando ci vado, in abito e cravatta. Ci pensavo poco fa, che in questi anni quei piccoli gesti – prendere una cravatta, chiudere l’ultimo bottone del collo della camicia, fare il nodo, stringerlo nel modo migliore possibile evitando pieghe e cedimenti durante il giorno – sono diventati un modo per affrontare la giornata in arrivo, per convincermi che il corso degli eventi possa essere influenzato da quel pezzo di tela, per realizzare il sogno proibito che l’abito possa veramente fare il monaco. A volte vorrei chiederlo a qualcuna tra le mie colleghe, non a quelle che ogni giorno sono belle e perfette, ma a quelle che di solito sono vestite “normali”, se quel vestito bello che oggi indossano, quella scarpa con il tacco giusto, quel trucco non affrettato che hanno oggi siano il loro modo di farsi coraggio per la riunione delle undici, per il debrief da passare alle operations, per passare non dico senza danni ma persino con soddisfazione le dodici ore tra l’uscita e il ritorno a casa. Qualche giorno fa ascoltavo Alessandro Del Piero rispondere alle domande di Federico Buffa, e dirgli che sì, è vero, che quando indossi quella maglia ti senti più forte e sei più forte: tutto sta a crederci, ed è quella la cosa che costa fatica, e impegno, e costanza, e dedizione, e una certa forma di infantile incoscienza che non vuoi ammettere nemmeno a te stesso.
07/06/2013
La donna si aggiusta uno degli auricolari. Ascolta un vecchio disco americano, chitarre e polvere e storie d’amore finite male come in un racconto di Carver. Guarda fisso davanti a sè, tenendo alle spalle l’acqua e la lunga passeggiata delle coppie e dei pensionati. E’ un posto che conosce bene, è casa sua: i palazzi di quel rosso che non si trova da nessun’altra parte, l’accento dei passanti, il vento che sale quando finisce il pomeriggio, i bambini su una giostra. Guarda come se cercasse qualcosa, e come se non riuscisse a trovarlo. Il movimento rotatorio della giostra la avvolge, i suoni si attutiscono fino a quando si scuote per un brivido di freddo che le sale dalle All Star viola fino alle spalle. La donna si sfila le cuffie, prende il telefono dalla tasca dei jeans, cerca un numero e chiama. Pronto, ciao, sai dove sono, sì proprio lì, hai cinque minuti, allora adesso ti dico cosa vedo.
06/06/2013
Pronto, Pronto, Ti disturbo, No, ma cosa c’è, Niente, Come niente, non mi chiameresti se non ci fosse qualcosa, Non ti posso nascondere nulla, Ti conosco troppo bene, Già, Allora cosa c’è, Un’ombra, Non ho capito, Un’ombra, Un’ombra, Sì, E dove, Sul muro, Non è così strano, No, ma è bella, Immagino, almeno giustificherebbe la telefonata, Fuori c’è il sole basso dopo il temporale, hai presente, Sì, C’è quella luce, bassa, di taglio, pare fatta apposta, Cos’è che fa ombra, Fiori, Che fiori, Come faccio a saperlo, sono un uomo, Già, E niente, la sto guardando da un po’ e continua a cambiare, si muove piano, E’ il tramonto, Sì, Dimmi cos’hai, Niente, Ti sento male adesso, Sono qui, Parla più forte, Sono qui, Sei sparito, ti richiamo, Sono qui, Pronto, pronto, pronto.
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