|
|
30/12/2010
Io il design non lo conosco, non l’ho studiato. Sono soltanto uno che guarda gli oggetti, e lo fa senza avere strumenti di conoscenza particolari. Però è bello guardarle, le cose: ed è ancora più bello farlo in certi luoghi, che alle cose sono dedicati. Allora, se vai alla Triennale di Milano puoi entrare al Design Museum, e lì trovi questa esposizione, la trovi per un paio di mesi ancora, si chiama “Quali cose siamo”: e capisci che non bisogna vergognarsi di pensare di “essere” cose: non perché lo siamo noi, ma perché nelle cose ci siamo noi. Le cose sono noi. Te lo dicono la poltrona a pois, e l’abito che Caraceni ha cucito per Totò, e il progetto per una stazione di autobus, e il leone meccanico costruito sui disegni di Leonardo da Vinci, e la composizione di biro col cappuccio rosso, e il tavolo da ufficio e il portafiori fatto in un ospedale psichiatrico e cento altre cose piccole e grandi, comuni oppure eccezionali, prodotte in serie oppure esemplari unici: le cose siamo noi, e se poi uscendo per strada vedi mille cose brutte o, peggio ancora, cammini e cammini e non vedi nulla, ecco, quel nulla siamo noi.
28/12/2010
Sul tavolo, una bottiglia che ha fatto migliaia di chilometri per arrivare qui. E un biglietto piccolo, che augura di ritrovare – dice proprio così: ritrovare – i sogni felici dell’infanzia.
27/12/2010
La donna sorride. Anzi, ride. E’ un riso che non si può interpretare, non sembra timido né vergognoso, di quelli che no, ti prego, in fotografia vengo male; e non sembra nemmeno sfrontato, di quelli che il mondo è ai miei piedi. No, sembra solo il riso pieno di una giovane donna dai capelli neri che cadono sulle spalle, il tailleur con la gonna al ginocchio e i bottoni chiusi e un volto che non puoi più ritrovare, perché il mondo cambia, impercettibilmente ma implacabilmente. Anche quel lago, o quel fiume sulla riva del quale la donna cammina, una riva che pare quasi melmosa, quel lago sta lì e potrebbe essere ovunque, non dice nulla se non se stesso, non parla, non racconta: si basta. Perché la donna rimane ferma lì, appesa con una molletta a uno specchio? Perché è bella, indistruttibilmente bella, e ti guarda, e non ti chiede di essere guardata: semplicemente, non riesci a fare a meno di farlo, di fissare il perimetro del volto, della bocca dischiusa, della figura forte. Cerchi un significato, ma questo non deve esserci per forza. A volte le cose sono giusto quel che sono, e così le persone, senza niente da scoprire perché è tutto evidente, lucido, netto. La donna sorride. Anzi, ride.
Cerreto d’Esi, una vigilia di Natale
26/12/2010
Lo sento che corre, che si muove, che salta, che gira. Senza sosta, in quel rettangolo con le sbarre e la ruota e lo scivolo e l’acqua e i semi. Ogni tanto si ferma, e pare che dorma. Chissà se sogna, e cosa.
25/12/2010
L’uomo allunga la mano e porge un sacchetto alle tre persone che lo accolgono con un sorriso stupito. Stanno in cerchio, sul sagrato della chiesa dove i tre passano tutte le loro notti, riparati nell’androne che una volta portava alla sala biliardo, ai cinque birilli. Grazie, grazie, buon Natale, l’uomo dà una lieve pacca sulla spalla a uno dei tre. Mi chiedo cosa contenga quel sacchetto rigido e lucido, giallo e verde. Una bottiglia? No, non regali una bottiglia a tre alcoolisti. Una torta, forse, un panettone, chissà. Mi piace pensare che ci siano tre pacchetti piccoli, tre oggetti. Tre pensieri, che è tutto quel che adesso vogliono, sono pieni del completo stupore che qualcuno abbia pensato a loro, che è quel che tutti vogliamo, tutti desideriamo senza dirlo, che qualcuno pensi a noi, che qualcuno prenda dieci minuti della sua vita e li dedichi a noi, come gocce di colla che ci tengano insieme, a noi, agli altri. Dall’interno della chiesa viene il suono di una chitarra, stanno provando “Tu scendi dalle stelle” e ne fanno una versione blues, che sa di cascina del reggiano e di mattino di ottobre a New Orleans. Guardo il telefono, vedo il simbolo in alto a sinistra, ne guardo i colori, penso a quel sacchetto, leggo. “Buon Natale”. Colla.
23/12/2010
Dopo l’ultima stretta di mano la casa rimane vuota. Sul tavolo della cucina una manciata di bicchieri di plastica che tengono sul fondo qualche goccia di uno spumante comprato di corsa al supermercato, e una fetta di torta al cioccolato appena sbocconcellata. Sul tavolo della sala c’è un quaderno, con le righe da terza elementare. La prima decina di pagine è occupata da firme, qualcuna seguita da un breve pensiero. L’uomo prende il quaderno in mano, fa scorrere i fogli sotto il pollice, senza leggere, senza vedere nulla, né le firme che ci sono, né quelle che mancano. Si sposta verso il grande specchio che occupa una parte del corridoio, si guarda, fissa l’abito scuro e la cravatta nera, e con un riflesso automatico porta le mani verso il nodo per stringerlo bene, per non far intravvedere nemmeno un microscopico angolo del bottone che allaccia il collo della camicia. Quando suona il campanello tira un sospiro e va ad aprire la porta di casa, trovandosi di fronte la vicina, che gli chiede con voce calma se ha bisogno di qualcosa; lui rimane per qualche secondo in silenzio, e in quel brevissimo tempo lei lo fissa negli occhi, lo fa dall’alto dei suoi anni come una madre potrebbe guardare un figlio, e gli dice solo “mi faccia entrare, si sieda, le preparo qualcosa da mangiare”. Lui si scosta, la guarda entrare e dirigersi verso la cucina, e fissandosi la lucida punta delle scarpe nere riesce solo a dirle “grazie”.
22/12/2010
Per una volta, mi pare che il cordoglio, la tristezza, la malinconia che si sentono in giro per la morte di Enzo Bearzot siano sinceri. E questo mi pare che dia la misura non solo di come siamo messi, ma soprattutto di come sentiamo di essere messi, di quel che sentiamo di essere diventati.
21/12/2010
L’altro giorno, quando ho sentito della morte di Padoa Schioppa e pareva che di lui tutto ciò che aveva dignità di memoria fosse quella frase bella e sciagurata sulla bellezza del pagare le tasse ho pensato alle assemblee condominiali, a quel consesso di gente che è disposta a svenarsi per mettere in salotto un parquet esotico ma non chiedergli di tirar fuori dieci euro per le rose del giardino o per l’imbiancatura dell’atrio, e mi è dispiaciuto per lui, che era morto due volte.
20/12/2010
Le ferie sono un sacrosanto diritto del lavoratore, conquistato grazie a dure lotte e pesanti sacrifici. Sarebbe bello che Alessandro Gilioli se ne ricordasse, così che nessuno fosse costretto a scrivere post in sua vece quando lui si prende un giorno libero: in particolare i titolisti del gruppo Espresso-Repubblica, noti virtuosi della tecnica in base alla quale il titolo di un articolo deve avere solo una parentela remota con il suo contenuto, titolisti ai quali sembrerebbe esser stato affidato l’incarico data la vaghezza delle argomentazioni. A me che Gilioli abbia o meno in simpatia Massimo D’Alema interessa abbastanza poco. Che scriva e avalli sciocchezze come le equazioni primarie=democrazia, ergo primarie-con-regole=democrazia-limitata e infine assenza-di-primarie=assenza-di-democrazia interessa un po’ di più, se non altro per il seguito del quale dispone.
19/12/2010
|
|
|