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La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla.
(Gabriel Garcia Marquez)

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    16/03/2020

    Nella bolla

    Filed under: — JE6 @ 16:47

    C’è poi un’altra cosa di questi giorni, che immagino siano un po’ così per tutti, giorni nei quali sei costretto a fare o non fare cose e in condizioni che mai avresti immaginato: è il ridefinire comportamenti e sensazioni nel nuovo perimetro di una bolla che potrebbe tranquillamente essere quella dei sedici anni o del villaggio vacanze o della sera della finale dei mondiali; perché altrimenti non si spiegano applausi, striscioni, fratelliditalia e financo cose piccole e private come una birra via Skype che finisce a stornelli d’osteria, tutte fatte in un principio di imbarazzo che vira facilmente nell’oh beh, sai che c’è, ma almeno per oggi chissenefrega. E’ per questo che sospetto di quella specie di ottimismo della volontà che dice quando tutto questo sarà finito avremo imparato questo e quell’altro e saremo migliori, più organizzati, più empatici, più consapevoli, più più più (o meno meno meno a seconda dei punti di vista e dei riferimenti): nella bolla è tutto diverso, noi stessi per primi. Solo pochissimi riescono veramente a imparare nell’eccezionalità, a trovare e tenere buono e far tesoro di quel che sembra valere solo per una settimana in una vita, e ancora meno sono quelli che riescono a trasmettere quella conoscenza che hanno avuto l’abilità e la volontà e la fortuna di trovare nel setaccio dei giorni dentro la bolla: un Primo Levi non nasce tutti i giorni, per intenderci, e pure quando nasce non è detto che venga riconosciuto. Quanto agli altri, che dire: gli altri siamo noi, e basta guardarci allo specchio.

    05/03/2020

    L’altra zona

    Filed under: — JE6 @ 13:40

    Da qualche giorno penso spesso a Chernobyl, alla Zona di alienazione che ho visto con i miei occhi un po’ meno di tre anni fa. Successe quel che successe, e li fecero andar via tutti. Qualcuno fece resistenza, qualcuno si ingegnò per tornare a dispetto di tutti i divieti e lo fece con tanta tigna che alla fine l’esercito messo a guardia dei nuovi confini si arrese e disse beh, se volete ammazzarvi con le vostre mani fate pure ma almeno non contate su di noi per darvi una mano. Molti fecero fatica a farsi una ragione, soprattutto gli anziani dei villaggi evacuati dall’esercito, quelli che erano scampati ai nazisti e all’Armata Rossa e non riuscivano a comprendere dove stava e come era fatto il nemico che li trascinava fuori dalle loro case: in guerra è tutto più semplice, dicevano, ci sono i carri armati e i fucili e gli eserciti, ma qui cosa c’è che ci obbliga ad andarcene? Si guardavano intorno e non capivano. Se non altro, però, potevano contare su una qualche forma di comunità: la propria famiglia e gli amici e la gente di quella manciata di case sparse nel bosco che spesso da quelle parti viene chiamata villaggio o paese. Con loro potevano parlare e mangiare un pezzo di pane insieme quando le imperscrutabili decisioni delle autorità non li avevano separati nei cervellotici processi di redistribuzione degli sfollati, potevano lamentarsi della sorte, prendersela col governo e ricordare i bei tempi andati: potevano, in ultima analisi, stare insieme e farsi forza a vicenda. O almeno provarci.

    Penso spesso a Chernobyl e a quella gente che si guardava intorno senza riuscire a individuare il nemico perché noi, qui, oggi, più o meno vicini alle zone rosse – che sono delle zone di alienazione al contrario, nelle quali la gente viene tenuta dentro, in alcuni casi anche a forza – non solo sappiamo, per quanto confusamente, qual è e come si chiama l’avversario, ma siamo anche consapevoli di quello che sembra essere l’unico modo di batterlo: che è, in sostanza, non fidarci degli altri, siano questi persino i nostri familiari stretti. Lontani, a un metro, a due, meglio stare a casa, non uscire, non incontrare persone, non parlarci per non rientrare nell’arco di quelle invisibili goccioline di saliva delle quali ci hanno insegnato ad aver paura. Non c’è paragone tra le due situazioni, certo: da una parte c’è una delle più grandi tragedie della storia, i cui effetti dureranno per migliaia di anni e dall’altra un blob dai confini incerti che vanno dall’influenza alla peste. E però nell’affiancamento degli opposti c’è qualcosa che fa pensare alle nostre vite, siano quelle vissute in remoti angoli di Ucraina e Bielorussia o quelle trascorse nelle pianure in eterno movimento della Lombardia e del Veneto, e quel qualcosa è che gli altri sono preziosi, e vanno curati per il solo e semplice fatto di esserci, di esistere. Lo dimentichiamo in fretta e altrettanto velocemente li facciamo diventare il nemico, ed è così che uccidiamo, senza accorgercene, noi stessi.