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La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla.
(Gabriel Garcia Marquez)

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    31/01/2014

    Uno di noi

    Filed under: — JE6 @ 16:07

    A mettersi a farne l’elenco, delle bestialità storiche e dei riferimenti farlocchi inanellati dai cinquestelli, c’è da prendere una risma di A4 intonsi e finirla e averne ancora d’avanzo. Ma se il problema fosse quello basterebbe un semestre di Scuola Radio Elettra, di CEPU, una full immersion di seconda media e la gran parte delle lacune sarebbero colmate; per dire, si eviterebbe di fotoscioppare a casaccio la Boldrini mettendola sul corpaccione di un re francese, cioè l’ultimo al mondo che uno penserebbe come fan della ghigliottina. Invece il fatto è un altro, è l’orgoglio dell’ignoranza, pure quella che ti fa gridare boia chi molla. A volte li sento e mi vengono in mente certi parenti, di quelli che “cosa ne sapete voi studiati, la vita vera è di noi che non siamo rimasti a scaldare sedie all’università, di noi che abbiamo i calli sulle mani” e più gli facevi notare che il buon selvaggio era buono – appunto – giusto nelle favole più si scaldavano e diventavano aggressivi e alzavano la voce: e trovavano sempre qualcuno nei dintorni disposto a dargli ragione. C’era in loro – e pare esserci in questa banda di individui che assalta il Parlamento gridando slogan fascisti – la reazione scomposta del complesso di inferiorità travestita da celebrazione della veracità, dell’onestà delle cose e delle persone terra terra. Abbiamo ciò che ci meritiamo, d’altra parte: abbiamo mandato al numero uno in classifica il re degli ignoranti, la logica conseguenza era quella di costruire la classe dirigente bio, quella senza additivi né coloranti, composta da capre quanto e persino più di noi; ma siccome niente resterà impunito, prima o poi arriverà qualcuno che riesce ad arrivare in fondo alla Settimana Enigmistica e, se non verrà crocifisso per un congiuntivo esatto, diventerà imperatore di questo paese, o di quel che ne sarà rimasto.

    26/01/2014

    M.

    Filed under: — JE6 @ 19:22

    Mi chiamo M. Sono nato molto tempo fa, prima della maggior parte delle persone che conosco, in un piccolo paese del Goceano. Forse dovrei dire in Sardegna, perché è lì che sta il Goceano. Ma tutti pensano alla Sardegna come al posto delle spiagge e del mare e invece io sono nato in collina, in un posto pieno di boschi e querce millenarie, dove d’inverno nevica.
    Vivevamo di due cose: pastorizia e agricoltura. Nelle grandi tancas di proprietà delle quattro-cinque famiglie ricche del paese stavano le pecore e le vacche, e molti lavoravano come servi pastori. Poi c’erano i campi, sei-sette chilometri più in basso: grano, orzo, olive, mandorle. Gli appezzamenti grandi dati a mezzadria, il resto erano fazzoletti di terra di proprietà delle famiglie che li coltivavano per il proprio sostentamento. Tutti avevano un orto e un vigneto, magari microscopico, e un maiale da uccidere. Non eravamo poveri, non abbiamo mai fatto la fame anche durante la guerra con i tedeschi accampati all’ingresso del paese; avevamo giusto quel che ci serviva per vivere, ma non avevamo i soldi, il contante. Potevi cenare, ma non sapevi come comprarti un vestito se non lo barattavi con qualche litro d’olio o un sacco di mandorle secche. Studiavamo, le elementari le facevamo tutti: ma le scuole medie erano lontane, in altri paesi difficili da raggiungere, così ci siamo fermati quasi tutti alla quinta. I pochi che sono andati avanti erano maschi, si diceva che alle femmine l’istruzione non serviva per fare figli e mandare avanti la casa.
    Eravamo in otto in famiglia. Papà e il primo dei miei fratelli lavoravano come magazzinieri nei cantieri stradali, partivano, stavano via una settimana, tornavano per qualche giorno e poi ripartivano. Mamma lavorava la terra, io e l’altro mio fratello curavamo le due sorelline, e cercavamo di dare una mano. Ho fatto per due anni l’aiuto-muratore: mi piaceva, se avessi potuto ne avrei fatto un mestiere, il mio mestiere: ma mettersi in proprio era quasi impossibile. Ho fatto anche il servo pastore, lo facevano tutti. Una notte rimasi da solo, sentii il rumore di un branco di animali rubati che risaliva la mulattiera che costeggiava l’ovile. Il paese era lontano chilometri, il buio era buio per davvero, così corsi a nascondermi dentro una grotta e ne uscii solo la mattina dopo. Sembra una favola ma è la verità. Non avevo ancora quattordici anni.
    Io volevo fare qualcosa di mio. Volevo essere indipendente, costruirmi qualcosa, e lì non potevo. Così, forse perché uno dei miei due fratelli maggiori era andato in polizia tre anni prima, forse perché in paese i carabinieri li conoscevano e li rispettavano tutti provai ad arruolarmi. Mi presero, passai cinque giorni a Cagliari e poi salii su una nave simile a un galeone di Cristoforo Colombo, ventiquattro ore seduti su una panca di legno in uno stanzone vuoto per arrivare a Civitavecchia, e da lì a Barletta per la scuola allievi, e poi sette anni tra Gorizia e Trieste, che ricordo come quelli più belli della mia vita anche se a quei tempi da quelle parti avere una divisa poteva essere pericoloso, eri nuovo dei posti, Gorizia era divisa in due come Berlino, bastava confondersi e andare a destra invece che a sinistra perché le guardie del popolo dell’esercito jugoslavo che presidiavano il confine ti sparassero addosso: morire perché sei andato a fare pipì dalla parte sbagliata, poteva succedere anche quello.
    Ero bravo con i motori. Io mica avevo fatto la scuola guida: figurati, a Illorai provincia di Sassari. Tutto completamente da autodidatta, ma sapevo guidare qualsiasi cosa, imparavo appena ci salivo sopra; ed ero così bravo che mi facevano fare l’istruttore: a me, che ero ancora in attesa di ricevere ufficialmente la patente. Fu così che salii sulla moto, erano i primissimi anni Cinquanta, e ne scesi solo vent’anni dopo. Per la maggior parte di quei vent’anni ho fatto scorte: spesso erano scorte d’onore, sulla Guzzi 500, con l’uniforme bella: cardinali che sarebbero diventati papi, ministri, generali, comandanti della NATO. Le gare di regolarità, in Italia e all’estero. A volte erano semplici scorte di servizio, in testa o in coda alle autocolonne, ma pure quelle non erano uno scherzo. Un giorno, era il mese di febbraio del 1959 o del 1960, ora non ricordo, ero comandato assieme ad altri 4 colleghi per scortare un’autocolonna di circa 60 automezzi militari tra cui una ventina di carri armati  M47 dalla caserma Perrucchetti di Milano fino a Lonate Pozzolo. A Castano Primo un mezzo andò in avaria; io ero il caposcorta, così tornai indietro per verificare ed avvisare il comandante della colonna. C’era una nebbia spaventosa, e almeno 10-12 gradi sotto zero. Tornando in testa alla colonna mi ritrovai trasformato in un pezzo di ghiaccio: e dico davvero, non sto scherzando. Non ero più in grado di fermare la moto, andavo avanti solo per forza d’inerzia. Un collega, resosi conto di quanto stava accadendo, si mise a corrermi dietro gridando ad altri militari “fermatelo, fermatelo”; quando vi riuscirono e mi tirarono giù dalla moto ero completamente congelato: non riuscivo a muovere un dito, gli occhi spalancati non mi si chiudevano più, insomma non muovevo più un muscolo. Mi praticarono dei massaggi per riattivare la circolazione e poi mi misero sopra un motore di un carro armato finché non mi ripresi completamente. Poi tornai in sella, e ripresi il mio lavoro.
    Nel 1958 mi trasferirono a Milano, e da allora non sono più andato via. Stavo al Terzo Battaglione, nella caserma di via Lamarmora, e intanto aspettavo di sposare la ragazza con la quale ero fidanzato da così tanto tempo che non me lo ricordavo nemmeno più: ma a quel tempo i carabinieri non si potevano sposare prima dei trent’anni, ci voleva tanta pazienza.
    Iniziai a fare il servizio di ordine pubblico nei primi anni Sessanta. Credo che fosse alla Brown Boveri di Piazzale Lodi. L’ho fatto per parecchi anni, una decina più o meno. Scioperi, manifestazioni, occupazioni, presidi. Uscivo di casa presto, andavo in caserma e mi preparavo: casco, tuta mimetica, anfibi, il fucile, la pistola e lo zainetto con i lacrimogeni. Salivamo sui camion, gli ACL, e partivamo. Dovevamo essere sul posto prima che arrivassero tutti gli altri, e dovevamo aspettare che se ne andassero tutti per poter tornare in caserma. A volte restavamo sette-otto ore sul cassone del camion, ma quasi sempre eravamo in strada, magari davanti ai cancelli delle fabbriche: la Farmitalia di viale Bezzi, l’Alfa del Portello. Non c’erano i cellulari, noi eravamo lì e le nostre mogli potevano solo sperare che non ci capitasse niente di brutto, aspettando di vederci rientrare a casa la sera. Sono stato fortunato, non mi sono mai trovato in mezzo a disordini veramente gravi tenendo conto di com’erano quegli anni: uccidevano le persone, scoppiavano le bombe nelle banche e nei treni, c’erano giorni che sembrava di stare in guerra e noi eravamo vestiti proprio per quello, per la guerra urbana: quando ci fu la sommossa del carcere di San Vittore, credo che fosse il 1969, ecco quello fu un macello, mille detenuti in rivolta che misero a ferro e fuoco la prigione, e tutto intorno le manifestazioni di sostegno, una settimana d’inferno e noi che pattugliavamo viale Papiniano con le autoblindo. Io ne pilotavo una. E’ difficile immaginarlo oggi, un mezzo blindato con il cannone che gira in piazzale Aquileia. Eppure successe. Devo dire che ci è andata bene. Ora che ci penso mi pare che avessero più paura le nostre famiglie a casa, mentre noi eravamo tranquilli. Non ho mai avuto veramente paura, se non quella volta di San Vittore, e qualche anno dopo quando è scoppiato l’impianto dell’Icmesa a Seveso e noi passavamo il nostro tempo a pattugliare la zona per impedire che le persone rientrassero in casa o si avvicinassero troppo alle zone più contaminate dalla diossina: lì sì, lì ho avuto paura, non di morire, ma di ammalarmi.
    Ho visto molte cose brutte facendo quel lavoro. Forse la più brutta è stata quella della Farmitalia. Noi eravamo lì e gli organizzatori della manifestazione decisero di mandarci contro le donne. Non so perché lo fecero, so solo che queste ci vennero incontro e ci gridarono di tutto, qualsiasi insulto possibile, pieno di disprezzo, come se fossimo degli animali, dei criminali, non lo so. Carne venduta, ci dicevano. Io sono una persona pacifica, ma quel giorno i miei commilitoni mi dovettero tenere per impedirmi di uscire dai nostri ranghi e spaccare il calcio del moschetto in testa a qualcuna di quelle donne. Non è una bella cosa, lo so. Ma erano anni nei quali sui giornali leggevi i nomi di carabinieri come te che morivano solo perché facevano il loro lavoro, e quelli per noi non erano solo dei colleghi. Erano dei fratelli. Non è facile da spiegare cosa si prova per qualcuno che porta la tua stessa divisa, il legame che si crea anche se non ci si conosce. Ed è il motivo per cui sto male quando sento di qualche carabiniere che si comporta male, perché sta disonorando anche me. Io sono sempre stato orgoglioso di quello che ho fatto, all’Arma devo tutto, la possibilità di farmi una famiglia, di vedere le cose, di girare uscendo dai confini dell’Italia, il primo di tutta la mia famiglia, prima ancora che mio fratello emigrasse e che mio figlio si mettesse a girare il mondo per lavoro.
    Tre anni fa la mia famiglia mi ha fatto un regalo. Mi ha messo su una macchina e mi ha riportato a Trieste. Non ci ero più tornato dal 1958. Ci siamo arrivati da Opicina. A un certo punto la strada fa una curva, e per un centinaio di metri gli alberi si aprono e sotto vedi il golfo e il porto e piazza Unità d’Italia. Mi si sono inumiditi gli occhi, ho mormorato “la mia Trieste” e ho ricordato il 26 ottobre del 1954, perché io c’ero, ero lì a fare la scorta d’onore al nostro comandante nel giorno in cui Trieste ritornò a far parte dell’Italia, ho ricordato le centinaia di migliaia di persone che stavano ai lati della strada salutandoci, piangendo per la gioia, ho ricordato l’orgoglio e la felicità di essere lì, in quel momento, con quella gente. La commozione, la stessa che sento adesso, sessant’anni dopo, perché una volta che diventi carabiniere lo rimani per tutta la vita.

    19/01/2014

    Dimmi com’era

    Filed under: — JE6 @ 19:44

    Per motivi che sarebbe fin troppo lungo, e comunque – almeno qui – irrilevante spiegare, in queste settimane ho parlato a lungo con tre persone. La più giovane è nata il due gennaio del millenovecentotrentotto. Mi sono fatto raccontare di quando erano bambini, di come vivevano nei loro paesi della Sardegna, del Friuli, della Lombardia. Di come si guadagnavano da vivere, del loro lavoro.
    Poi, qualche giorno fa, un po’ per caso e un po’ no, ho trovato questa frase che Primo Levi scrisse nell’appendice all’edizione scolastica di “Se questo è un uomo”: “Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario.”
    E’ una frase che vale per molte cose e situazioni della vita, vale quasi sempre per le cose lontane da noi, nel tempo o nello spazio. Vale, molto spesso, per le piccole storie dei piccoli mondi dai quali veniamo, quelli delle nostre famiglie: dei nostri genitori, dei nostri nonni o bisnonni. Soprattutto oggi, che il mondo cambia così rapidamente che fatichiamo a riconoscere quello di quindici o venti anni fa: pensa a quando avevi in casa il telefono fisso con la rotella bucata, attaccato al muro; poi metti la mano in tasca e tocca lo smartphone, del quale oggi non sapresti fare a meno. Per dire.
    E’ anche una frase che va capita, e messa nel suo contesto. Levi la scrisse riferendosi all’esperienza del lager e dell’Olocausto. Una cosa talmente enorme che davvero si può dire che “comprendere è impossibile”. Forse, nella maggior parte dei casi, è però più giusto dire che “comprendere del tutto, fino in fondo è impossibile”. Ma capire si può, almeno un po’. C’è, ad esempio, una cosa che credo di aver capito io, parlando con quelle tre persone. Credo di aver capito qualcosa che ha a che fare con me, con le persone della mia età, più che con loro. Credo di aver capito che, un tempo, per quasi tutti il lavoro era lavoro, punto. Una cosa che molto spesso costava fatica e che veniva fatta per vivere, o sopravvivere. Poi certo, se era un lavoro che ti piaceva eri contento, ma difficilmente affrontavi la vita cercando, perseguendo quella forma di soddisfazione. Io, invece. Noi, invece, siamo cresciuti con l’idea che avremmo dovuto fare un lavoro che ci piaceva, che ci gratificava. Siamo cresciuti con l’idea che questo fosse un nostro diritto, che ci saremmo e avremmo dovuto realizzarci attraverso il lavoro. E’ una cosa che ci siamo potuti permettere grazie a loro, perché invece di doverci preoccupare di mantenere una famiglia avevamo una famiglia che ci manteneva.
    Poi credo di aver capito un’altra cosa, parlando con quelle tre persone. Credo di aver capito che nell’arco di una vita anche le persone più normali si trovano a essere, a volte per scelta e a volte per caso, speciali. E infatti sono certo che se al posto loro ci fossero stati altri tre, se invece di un carabiniere, di una tabacchina e di un falegname avessi parlato con uno spazzacamino, una mondina e un camionista sarebbe stata la stessa cosa, altrettanto bella – credo, e spero. E infatti, parlare con loro e farmi raccontare le loro storie è stata la cosa più bella che ho avuto la fortuna di fare da molto tempo a questa parte.

    16/01/2014

    Tutto ciò che serve

    Filed under: — JE6 @ 20:29

    Si tiene la busta tra le mani. La busta, perché il foglio è appoggiato sul letto, piegato nelle tre parti di una zeta. La guarda, poi volta gli occhi verso il pezzo di carta scritto a mano. Una lettera. Ma chi scrive ancora lettere, oggi? Eppure. Eppure succede, senza preavviso. Non la vuole riguardare, quando ha aperto la patella e ha tirato fuori il foglio sapeva già cosa avrebbe letto, l’ha fatto di corsa per arrivare in fretta alla fine, perdendosi parole magari importantissime; ma è arrivata l’ora di quel film, che va bene per non cadere nella tentazione di fermarsi su ogni singola riga: non ce n’è bisogno quando si sa già tutto ciò che serve.

    06/01/2014

    Giorno di festa

    Filed under: — JE6 @ 20:00

    Sono passati quattro anni e qualche ora da quella notte in cui lo vedemmo spegnersi davanti ai nostri occhi. E il verbo non è usato a caso. Qualche giorno dopo ci fu il funerale, e poi andammo avanti, intontiti da quel che era successo, e da quel che alcuni di noi avevano visto, e raccontato. Negli anni successivi abbiamo preso l’abitudine di trovarci al cimitero nel giorno dell’anniversario della sua morte, che è anche un giorno di festa – seppure strana perché è quella che chiude le settimane che contengono Natale e Capodanno. Stiamo davanti alla sua foto, diciamo una preghiera, attraversiamo il quartiere a piedi, ascoltiamo una messa in sua memoria, e beviamo un bicchiere di vino. Così ogni anno ripartiamo da lì, da quella fotografia, da quei ricordi, ci beviamo sopra con una risata storta e, appunto, andiamo avanti. Da fuori forse sembriamo un branco di nostalgici del cazzo: ma non è che si deve sempre rendere conto di tutto a tutti, e quindi.

    04/01/2014

    Let it snow

    Filed under: — JE6 @ 17:04

    Cosa guardi?
    La neve.
    Sì, certo. Domanda stupida.
    Non me la ricordavo.
    Davvero?
    E’ passato così tanto tempo dall’ultima volta.
    E’ sempre neve, no?
    Non dire scemenze. E poi da noi quando mai nevica così.
    Hai ragione.
    E tu cosa stai guardando?
    Io? La neve.
    Eddai, piantala.
    Giuro. È solo che cerco di guardarla con altri occhi.
    Tipo?
    Tipo i tuoi.

    01/01/2014

    Nascosto in bella vista sotto gli occhi

    Filed under: — JE6 @ 21:40

    (…) il cosiddetto «mondo reale» degli uomini, del denaro e del potere vi accompagna con quel suo piacevole ronzio alimentato dalla paura, dal disprezzo, dalla frustrazione, dalla brama e dalla venerazione dell’io. La cultura odierna ha imbrigliato queste forze in modi che hanno prodotto ricchezza, comodità e libertà personale a iosa. La libertà di essere tutti sovrani dei nostri minuscoli regni formato cranio, soli al centro di tutto il creato. Una libertà non priva di aspetti positivi. Ciò non toglie che esistano svariati generi di libertà, e il genere più prezioso è spesso taciuto nel grande mondo esterno fatto di vittorie, con queste e ostentazione. Il genere di libertà davvero importante richiede attenzione, consapevolezza, disciplina, impegno e la capacità di tenere davvero agli atri e di sacrificarsi costantemente per loro, in una miriade di piccoli modi non seducenti, ogni santo giorno. Questa è la vera libertà. Questo è imparare a pensare. L’alternativa è l’inconsapevolezza, la modalità predefinita, la corsa sfrenata al successo: essere continuamente divorati dalla sensazione di aver avuto e perso qualcosa di infinito.
    So che questa roba forse non vi sembrerà divertente, leggera o altamente ispirata come invece dovrebbe essere nella sostanza un discorso per il conferimento delle lauree. Per come la vedo io è la verità sfrondata da un mucchio di cazzate retoriche. Ovvio che potete prenderla come vi pare. Ma vi pregherei di non liquidarlo come uno di quei sermoni che la dottoressa Laura impartisce agitando il dito. Qui la morale, la religione, il dogma o le grandi domande non c’entrano. La Verità con la V maiuscola riguarda la vita prima della morte. Riguarda il fatto di toccare i trenta, magari i cinquanta, senza il desiderio di spararvi un colpo in testa. Riguarda il valore vero della vera cultura, dove voti e titoli di studio non c’entrano, c’entra solo la consapevolezza pura e semplice: la consapevolezza di ciò che è così reale e essenziale, così nascosto in bella vista sotto gli occhi di tutti da costringerci a ricordare di continuo a noi stessi: «Questa è l’acqua. Questa è l’acqua; dietro questi eschimesi c’è molto più di quello che sembra». Farlo, vivere in modo consapevole, adulto, giorno dopo giorno, è di una difficoltà inimmaginabile. E questo dimostra la verità di un altro cliché: la vostra cultura è realmente il lavoro di una vita, e comincia… adesso. Augurarvi buona fortuna sarebbe troppo poco.

    Stanotte, saranno state le tre, ero stanco e faticavo ad addormentarmi. Così ho preso in mano il Kindle e mi sono messo a fare una delle non moltissime cose che mi danno veramente piacere – leggere. Ho pensato che i propositi di fine e inizio anno normalmente sono cose stupide, o banali al punto da suonare come boiate talmente imbarazzanti da essere dimenticate non appena scavallata l’Epifania: e quindi nessun proposito, ma siccome da qualche parte bisogna pur partire c’era (c’è) solo da cercare di farlo con il piede giusto, o almeno non sbagliato, e questo – che nella sua interezza avrò letto minimo una dozzina di volte – era il pezzo migliore al quale potessi pensare, dal quale potessi partire.