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La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla.
(Gabriel Garcia Marquez)

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    26/10/2016

    Come se fosse cosa viva

    Filed under: — JE6 @ 13:21

    E’ in quel momento lì, quando mi inginocchio seguendo il gesto della mano lunga e bianca che me li sta indicando, è nel momento in cui all’altezza degli occhi trovo i dorsi di un’edizione antichissima dell’Encyclopedie, proprio quella, è in quel momento lì che mi ritrovo, dopo alcuni secondi di qualcosa che non saprei definire bene – emozione, smarrimento – a provare la sensazione di guardare uno dei molti e al tempo stesso pochissimi punti dai quali vengo, come se avessi di fronte non un libro ma una persona, la madre della madre della madre della madre di mia madre appoggiata qui, in questa magnifica scatola di legno intarsiata che contiene la storia del mondo, una biblioteca piena di libri stampati alla fine del Quattrocento che pare siano usciti adesso dalla macchina da stampa tanto sono nitidi, di tomi del Cinquecento nei quali l’America del Nord era chiamata Terra Ignota, di trattati scientifici del Seicento accuratissimi e aggraziati come dipinti di Michelangelo, un luogo curato come un figlio – quella mano lunga e bianca appartiene a un uomo alto con la barba bianca e lunga, un monaco in jeans e mocassini che conosce questi libri e le loro storie e le storie di chi li ha scritti e di chi li ha stampati, li conosce con una profondità e un amore non ostentati, li cura con l’attenzione che si dedica solo alle cose (alle persone) che si amano. Io sto lì, noi stiamo lì a guardare e ascoltare e fare domande come i nipoti con i nonni anche se abbiamo la stessa età dell’uomo che ci parla, vorremmo dirgli di non fermarsi, di aprirci un altro scrigno, e quando usciamo gli stringiamo la mano lunga e bianca e gli diciamo grazie e quando ci ritroviamo fuori nell’aria fredda della montagna di ottobre ci guardiamo in faccia e per un po’ non sappiamo cosa dirci.

    06/10/2016

    Un antidoto contro la solitudine

    Filed under: — JE6 @ 13:39

    La cosa più difficile è sempre stata bussare alla porta della stanza, fare due passi, dire buongiorno e presentarsi. Sempre. Per qualche mese sono andato insieme ad altre persone in un ospedale milanese a chiedere ai malati se avevano voglia di starci a sentire leggere alcune pagine di un libro, e ogni volta la cosa più difficile è stata quella. Ogni volta il pensiero era “ma questa gente non avrebbe diritto di starsene in pace, perché sono qui, perché sto invadendo questo microscopico perimetro che delimita il loro letto”. Sono state più le camere nelle quali non sono entrato che quelle nelle quali ho messo piede: perché la persona aveva gli occhi chiusi, perché c’era una tapparella a metà, perché c’era una persona seduta vicino al letto, perché c’era una trasmissione del sabato pomeriggio che faceva da sottofondo ai minuti che passano da un pasto a una pastiglia. Ma in qualcuna sì, sono entrato, mi sono presentato, ho chiesto se volevano che, ho detto quali libri avevo con me. Ho ricevuto dei sì poco convinti – la maggior parte, quasi di cortesia, come se fossero loro a fare un piacere a me: e in effetti spesso avrei scoperto che era proprio così – e qualcuno più caldo. Ho ricevuto un sacco di no, come era ovvio e pure giusto che fosse. Ho letto “La chiave a stella” a una magnifica ottantenne napoletana professoressa di lettere e il finale de “L’amore ai tempi del colera” a una casalinga di Rozzano, e altre cose ancora ad altre persone ancora, e ogni volta alla fine mi sono ritrovato sudato fradicio come se avessi scalato una montagna. Ho visto persone chiudere gli occhi e prendere un respiro lento e regolare (e i nostri istruttori ci dicevano che era una cosa buona e bella, che era come far addormentare un bambino). Più di una volta mi sono fermato dopo una manciata di righe, più di una volta mi sono fermato un’altra mezz’ora a chiacchierare e soprattutto a farmi raccontare storie, il signore che non vedeva la figlia e i nipoti da mesi perché sa, sono occupati, hanno tanto da fare e si capiva che ci voleva credere davvero, la maestra in pensione che aveva inserito un metodo di insegnamento in una scuola elementare negli anni Cinquanta, la soprano caduta in disgrazia, il disoccupato in stato di depressione, la moglie che suggeriva al marito allettato le parole che il leggero ictus non gli faceva più venire alla bocca. Ho ricevuto molto, molto più di quanto ho  dato, e ho toccato con mano quanto David Foster Wallace avesse ragione a dire che un libro è un antidoto contro la solitudine – lo è quando lo apri e ti isoli dal mondo che ti sta intorno per entrare in un altro lontano pieno di gente da conoscere, lo è quando qualcuno lo apre per te, lo è in un sacco di modi imprevisti e sconosciuti fino a quando li tocchi con mano. Non funziona sempre, non risolve tutto, ma come sarebbe la vita senza mi viene freddo solo a provare a immaginarlo.