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30/11/2009
Tornano a casa in silenzio, in una normale giornata di sole. Lui sceglie le strade cercando di evitare di passare davanti a scuole e asili, ogni tanto lascia la leva del cambio e le sfiora la mano, senza essere ricambiato. Lei guarda nel vuoto. Non è stanca, non le fa male nulla. Non vorrebbe nemmeno essere da un’altra parte, perché adesso si è accucciata in una bolla che la isola dal mondo. Ogni tanto ha un piccolo sussulto, come se realizzasse quel che è successo, dove si trova in quel momento, dove sta andando, come riprenderà la vita di tutti i giorni. Quando succede, le si riempiono gli occhi di lacrime e gira la testa, fissa un punto qualsiasi per concentrare l’attenzione su qualcosa che non sia quel bambino che non c’è più – un’edicola, un albero, un cartello stradale. Lui, aprendole la portiera della macchina per farla salire e sedere, le ha chiesto come si sente. Lei non ha risposto, ha solo alzato le spalle per dire come vuoi che stia; ma la verità è che non lo sa, se anche avesse voglia di parlare non saprebbe trovare le parole: puoi provare nostalgia di qualcuno che non hai mai visto, di qualcuno che hai solo immaginato, di qualcuno che ancora non era, non aveva nè un nome nè una forma? Puoi, sì. E puoi sentirti insensatamente colpevole perché adesso quel qualcuno non c’è più, non importa se il primario ha detto di non preoccuparsi, che è tutto a posto, che non c’è nulla che non va, che capita a una donna su tre, che tutto quel che si deve fare è riprovare e riprovare e riprovare; non doveva succedere ma è successo, e adesso deve tirare un respiro lungo e profondo e andare avanti, continuare a vivere, perché prima è fortuna ma dopo è merito. Lui parcheggia, spegne il motore, prova ancora ad accarezzarle la mano come per svegliarla. Andiamo, ti accompagno in casa, poi vado a fare un po’ di spesa.
[“Come si fa a perdere un bambino?” chiese Jackson. “Non è ancora nato. Non può andare da nessuna parte.” – Nick Hornby, “Tutta un’altra musica”]
29/11/2009
Noi che passiamo tanto nostro tempo a scrivere, qui sui blog e sui socialcosi, forse non abbiamo creato un futuro, non abbiamo innescato un cambiamento, non abbiamo reso – chissà se potendolo fare – il mondo migliore di com’era quando lo abbiamo trovato. Avevamo le magnifiche sorti e progressive nelle nostre mani, e quelle sono sfilate tra le nostre dita come sabbia. Forse non abbiamo fatto tutto questo, come dicono quelli che queste cose le studiano: e io mi fido di loro. Ma forse stiamo facendo qualcosa di ugualmente importante, pur senza accorgercene. Stiamo raccontando il presente, e persino un pezzo di passato. Tra venti o cinquant’anni si potrà ricostruire un giorno della vita di questo paese, e forse si riuscirà a farlo meglio grazie a noi, e al racconto delle piccole, microscopiche storie che contribuiscono a fare la Storia. Si potrà capire chi eravamo leggendo i post con le k, i racconti familiari, quelli degli scazzi lavorativi, quelli delle vacanze, quelli delle modeste passioni politiche dei nostri tempi incerti. Mi piace pensare che questo sarà possibile senza aver bisogno del Giampaolo Pansa di turno, di quello che te lo dice lui come eravamo, di quello che la Storia sono io, mi piace pensare che sarà un grosso puzzle vero quanto gli affreschi di Pompei, mi piace pensare che ogni giorno ne stiamo creando una tessera colorata.
[Dedicato alla Signora Maestra, che le sia lieve la terra]
27/11/2009
Percorro pigro Coney Street con i suoi mercatini natalizi, i formaggi, i dolci, la birra artigianale, la cioccolata calda col brandy, la bigiotteria, le cravatte. C’è una bella atmosfera, allegra ma non frenetica, forse perché è una sera infrasettimanale, forse perché siamo ancora abbastanza lontani dal Natale. Fra tre settimane saremo tutti sull’orlo di una crisi di nervi, lo saranno anche qui nella ricca e nobile e bella York, ma non stasera, stasera siamo tutti calmi, rilassati, abbiamo tempo da perdere o forse da guadagnare passeggiando tra mille oggetti che non compreremo. Il Natale, come qualsiasi festa, non è che uno stato della mente e oggi, 26 novembre, è un po’ Natale. Sugli scalini di quello che sembra essere l’ufficio informazioni della città di York siedono due senza casa, due barboni come dicevamo una volta, e sia lui che lei sono vestiti di abiti lisi e sporchi e digitano compulsivamente su due vecchi cellulari, chissà cosa scrivono mi chiedo mentre giro la testa e guardo una bancarella che vende animali intagliati nel legno.
Non c’è molta gente dentro lo York Minster, in una sera di un giovedì di novembre: i turisti aspettano quel poco di caldo che queste terre offrono durante l’anno. Così, riusciamo a trovare posto negli scranni di legno intarsiato del coro della cattedrale. Ci alziamo all’entrata della corale, ci risediamo al segnale dell’officiante, e poi pare che tutti socchiudiamo gli occhi quando i sedici ragazzini e la dozzina di adulti vestiti di bianco e di rosso iniziano a intonare i salmi. Fisso un bambino che avrà forse sette anni, piccolissimo e con gli occhiali che cerca spasmodicamente di non perdere il filo della lettura, osservo i due tenori che siedono un metro davanti a me modulare un controcanto sfogliando lo spartito. Come due anni fa sempre qui a York, come qualche mese fa nella Westinster Abbey a Londra, sembra che non ci sia altro al mondo che queste voci, che riempiono tutto. Mi trovo a pensare che non serve essere credenti per godere di tutto questo, esserlo aiuta di sicuro a trovare qualcosa di trascendente e inspiegabile e ineffabile, ma c’è anche una bellezza – la bellezza di mille anni di storia, la bellezza di una tradizione e di una dignità – che è di tutti, e non coglierla non è un segno di quella laicità che in tanti difendiamo quasi per partito preso, è solo mancare di un pezzo, e non rendersene nemmeno conto.
Ci godiamo la manciata di ore libere dopo l’appuntamento che ci ha portati in un Business Park nel bel mezzo della campagna dello Yorkshire. La volta scorsa nevicava, oggi York splende sotto il sole e nel vento. Attraversiamo il ponte sull’Ouse, vediamo le acque ancora alte dopo le settimane di pioggia incessante di cui mi parlavano ieri, ci ripariamo dall’aria e chiudiamo gli occhi davanti ai raggi bassi dell’inverno. Un mercatino natalizio dentro una vecchia chiesa, un signore con il cilindro e l’ombrello che indica un fish-and-chips, le volte in mattone di un pub dove ci facciamo consigliare da una anziana coppia di indigeni, le rovine di un’abbazia del dodicesimo secolo, le classi in gita scolastica – okay, be careful, let’s meet here again at eight – le ragazze vestite leggere a dispetto della temperatura, gli addobbi di Natale, la strada romana, i prati all’inglese. Tutto da cartolina, Greetings from York, certo, tutto come da copione; è solo che ci sono dei giorni, anche dei soli momenti ritagliati in tutto quel che fai, che il copione è quello giusto, che tutto è dolce senza essere sdolcinato e divertente senza essere sguaiato, e oggi sembra un po’ così.
25/11/2009
Ci sediamo all’Horse and Trumpet. Fuori fa freddo, tira vento e abbiamo voglia di sederci nel caldo di un pub per mangiare e berci una pinta di Tetley’s. Facciamo quattro chiacchiere, guardiamo la coppia che abbiamo alle spalle, la tintura casalinga e antica di un uomo dalle dita deformate dall’artrosi, il ragazzo che ci serve pieno di spilli come un riccio, la moquette arabescata. Racconto al mio collega della sera di qualche anno fa, quando nello stesso pub incontrammo una signora che lavorava al teatro dell’Opera di Leeds e aveva imparato l’italiano ascoltando Verdi, ma tengo per me il racconto di una telefonata che in quella stessa sera chiuse un periodo orribile perché non ho voglia di riportare a galla certi ricordi. Entra un uomo, sulla cinquantina o forse poco più. Va al banco, chiede una pinta, la paga, si gira verso di noi – may I join you, gentlemen? – e noi gli facciamo cenno con la testa sì, certo, si accomodi. Si siede, ci stringe forte la mano, ci dice che è stato educato a conoscere gente nuova, ce lo ripete tre, quattro, cinque volte. Lo ascoltiamo senza interromperlo, sommersi dal profluvio di parole e affascinati dal movimento costante delle sue mani da pianista, le dita lunghe dalle unghie ben curate che fluttuano davanti ai nostri occhi. We have to take care about our words, ci dice serio, otherwise it will be all over, e questo all over lo ripete un numero infinito di volte; a un certo punto mi guarda negli occhi – Remember, our planet lives in the vacuum of infinity – e io, stupido che sono, non riesco a cogliere la pienezza e la poeticità di quell’affermazione, benchè fatta da un folle, perché a me la parola vacuum fa venire in mente gli aspiratori della Folletto, vai a capire cos’ho in testa. Poi il pianista del vuoto cosmico si ferma, ci fissa e ci chiede serio cosa ne pensiamo di tutto ciò che ha detto durante l’ultimo quarto d’ora, quando anche i due ubriachi che ciondolavano sul marciapiede proprio dall’altra parte della finestra accanto alla quale eravamo seduti non hanno più retto al freddo e se ne sono andati. Noi non sappiamo cos’altro dirgli che è difficile non essere d’accordo e intanto ci alziamo e lui si arrabbia, ma lo fa con dignità, in modo molto british, gli allungo la mano per salutarlo e lui la rifiuta, fa un gesto sdegnoso come se tutto il disprezzo del mondo nei confronti di noi poveri di spirito si fosse concentrato in quella mano lunghissima e bianca – goodbye, ci dice secco e amareggiato – e noi usciamo roteando le pupille e sghignazzando, ma a me un filo di tristezza è rimasto, come per un’occasione persa, qualunque questa fosse.
Arriviamo a Londra in una giornata magnifica, il sole e il cielo terso, le pozze di acqua sulla pista di Heathrow che si increspano per il vento. Il clima inatteso ci accompagna lungo tutto il percorso che il treno fa da King’s Cross allo Yorkshire, guardiamo fuori dai finestrini e non possiamo dire “una volta era tutta campagna” perché lo è ancora, campi verdi come quelli di Wimbledon al primo giorno di torneo, fiumi, cigni, ponti in ferro, fornaci in mattone, dolci colline e tutto l’armamentario bucolico che possiamo rimirare con calma. A destinazione il cielo si inscurisce, inizia la pioggerella fredda e leggera che uno considera come parte integrante della vita di queste zone, poi smette, si apre qualche squarcio di azzurro e nei dieci minuti di cammino che mi portano all’ufficio dove mi aspettano rimane solo l’aria del nord, quella che ti riempie e ti solleva e ti fa passare la stanchezza, quella per cui vale ogni volta la pena di tornare da queste parti.
24/11/2009
Camminano senza fretta costeggiando il grande canale artificiale, tanto simile a quello della loro città. Scattano una fotografia insieme a due ragazzini rossi e lentigginosi che vestono la divisa di una scuola, o forse di una banda musicale. Salgono sul lungo ponte di legno che collega le due sponde, lo sentono vibrare sotto i loro passi, si fermano appoggiandosi al parapetto e fissano un punto indefinito all’orizzonte, dove forse il corso d’acqua entra in mare. Guardano il vapore del respiro materializzarsi, lei alza la macchina fotografica e cerca un’inquadratura e poi rinuncia, lui abbassa un poco la cerniera del giubbotto. Senza voltarsi, lei mormora “quanto mi piace l’inverno”. Lui accenna un sorriso; non importa che sia agosto, ha capito cosa vuol dire, l’aria enorme del nord che entra nei polmoni, la luce infinita del tramonto dopo la pioggia. Le prende la mano.
22/11/2009
Arrivano tenendosi per mano, come tutte le mattine. Aspettano che il vigile gli faccia cenno e attraversano la strada; qualche cenno di saluto col capo, una
sistemata alla cartella. Passano il primo cancello, in silenzio. Due passi prima del secondo cancello, quello più stretto che porta nella piccolissima scuola di periferia, il bambino stacca la mano e senza dire nulla si mette a correre. Il padre rimane fermo, stupito, ha visto sul volto del figlio un sorriso talmente breve da non avergli dato importanza e adesso lo guarda correre dentro il salone della scuola, quello sul quale si affacciano le cinque classi, lo vede muoversi contento e goffo come può essere un bambino di nove anni che non ha mai corso per davvero, che non ha mai parlato, che ha vissuto un’eternità dentro se stesso. Incrocia lo sguardo della maestra che sta all’ingresso ad accogliere i bambini, la vede ridere come se volesse dirgli hai visto, non è magnifico? e magnifici lo sono davvero quei passi di corsa incerti e spontanei.
Il padre rimane ancora per qualche secondo a guardare il figlio che ormai sta entrando nella classe, il figlio che lo ha lasciato senza salutarlo preso dall’entusiasmo di unirsi ai suoi compagni. Poi gira le spalle, vorrebbe dire subito a sua moglie cos’è successo in quei pochi istanti, ma aspetta a telefonarle perché non vuole farsi sentire, non vuole parlare nel flusso frettoloso di madri e nonni e bambini che entrano ed escono, vuole un minuto solo per loro due. Aspetta che il vigile fermi il traffico, attraversa la strada, entra nella macchina parcheggiata nella posizione rischiosa di ogni mattina. Quando si siede, nel momento in cui digita il numero della moglie viene improvvisamente schiantato da anni di dolori e tristezze intervallati da brevi sprazzi di speranze, da infiniti giorni di fatiche, di litigi alimentati dal nervosismo e dalla frustrazione, da notti passate a guardare il volto del figlio, quel figlio diverso da tutti gli altri bambini, quel figlio che ha sempre vissuto nel suo mondo chiuso a chiunque altro. Scoppia a piangere, e per un minuto o due non fa altro, piange come piangono gli uomini, i maschi, piange di getto. Quando finisce si sente stremato, e finalmente pronto a condividere la microscopica felicità di aver visto per la prima volta il figlio essere un bambino come qualunque altro, un bambino che corre e gorgoglia un rauco ciao per salutare i suoi amici, quelli ai quali stanno insegnando come si sta vicini, come si aiuta un coetaneo malato e strano. Scorre la rubrica del telefono, trova il nome e il numero e la fotografia della moglie. Amore ciao, ti devo raccontare una cosa.
21/11/2009
Le “Donne della realtà”, quelle che dovrebbero “interrogarsi su come i media possano ridare visibilità alla molteplicità delle esperienze femminili e recuperare un ruolo di analisi e critica nei confronti dei fatti di cronaca” (non prendetevela con me, virgoletto Repubblica che a sua volta, immagino, riporta il comunicato stampa, suppongo scritto dal ghost writer di Kim Jon Il) sono una docente di psicologia sociale, una filosofa, la direttrice di un telegiornale nazionale, la segretaria confederale di un sindacato, due direttrici di un quotidiano, la direttrice di un settimanale; mi pare che l’astrofisica, l’arte concettuale e l’altissima finanza non siano rappresentate, mostrando così che la strada per l’ingresso completo e definitivo dell’altra metà del cielo nella realtà è ancora lunga e irta di ostacoli e resistenze, ma la fiducia nelle magnifiche sorti e progressive rimane immutata: ce la possono fare.
Repubblica.it (su perfida segnalazione della Maestra)
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