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La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla.
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    17/11/2020

    Gone Shootin’

    Filed under: — JE6 @ 16:10

    Ieri sera mi sono messo comodo a leggere un libro. Un libro di carta, non ne compravo da non ricordo nemmeno più quanto tempo: d’altra parte, i libri fotografici sul Kindle non vengono un granché bene, e quindi. Si intitola “Shooting in Sarajevo”, lo hanno curato Roberta Biagiarelli e Luigi Ottani, lei attrice e drammaturga, lui fotografo. Gli è venuta l’idea di tornare (o andare per la prima volta, nel caso di Ottani) a Sarajevo e inquadrare la città dalle postazioni che venivano usate dai cecchini, che erano così tanti da rendere la vita un inferno ancora più atroce di quanto non lo facessero già le granate che piovevano dall’alto delle colline fino a tremila al giorno, e così integralmente parte dei quattro interminabili anni che durò l’assedio da meritarsi l’onore – se così lo si può chiamare: ma non dubito che per molti di essi lo fosse veramente – di vedersi intitolare il lunghissimo viale che porta dall’antico centro ottomano e austroungarico all’aeroporto.

    Di racconti sulla psicologia e sulle gesta del cecchino se ne trovano a milioni, su quelli di Sarajevo pochi di meno; non so se gli sniper americani in Afghanistan fossero fatti di pasta diversa dai serbobosniaci che sparavano dalle pendici del Trebevic o dalle case di Grbavica, so che questi – forse non tutti, certo la gran parte di loro – metteva in quel che faceva un di più di scientifica crudeltà: per tutti valeva la regola, vedendo un gruppo di persone ferme su un marciapiede in attesa di attraversare un ponte o un incrocio stradale, di sparare una prima volta per ferire, perché questo avrebbe fatto arrivare altre persone in soccorso della vittima e a quel punto c’era solo l’imbarazzo della scelta. Alcuni andavano oltre, come il Dragan Sljivic che di fronte alle telecamere si fece un punto d’orgoglio nello spiegare la sua personale economia della pallottola: se sparo a un padre il figlio rimane vivo, se sparo a un figlio il padre muore con lui, due piccioni con una fava.

    Ma non sono gli aneddoti più o meno spaventosi che mi interessano qui. E’ che non avevo mai fatto veramente caso al fatto che il verbo inglese to shoot significa sia sparare che scattare una fotografia. Fin qui, tutto sommato nulla di straordinario: è uno di quei verbi che ti tirano scemo quando li studi, come il to play che significa giocare e suonare e ascoltare o vedere qualcosa e recitare e mi sa che non me li ricordo tutti. Ma se pensi al cecchino, se te lo raffiguri vedi il mirino del fucile di precisione, quel cerchio all’interno del quale si trovano le due rette che si incrociano e determinano il punto esatto dove piazzare la pallottola. E a quel punto il collegamento con l’obiettivo del fotografo diventa molto più facile: lo racconta lo stesso Ottani, ricordando i brividi che lo attraversavano nel momento in cui si rendeva conto che tutti i gesti del suo mestiere – appostarsi, inquadrare, attendere il momento giusto, tenere il respiro per non muoversi, muovere il dito in quell’istante preciso – erano e sono gli stessi del cecchino. Cambia il risultato finale, uno dà la morte scagliandoti a terra e l’altro rende eterno nel fissarti in un’immagine, ma , come mi ha scritto un amico durante la presentazione online del libro alla quale abbiamo assistito insieme, io a Milano e lui a Roma, in entrambi i casi spii una persona ignara e ti appropri della sua vita, in entrambi i casi è un’azione simile a quella di un dio. E in entrambi i casi, questo lo aggiungo io, c’è un altro elemento che conta, anche se in una delle due situazioni non ci piace ammetterlo: la capacità di fare il proprio mestiere, di farlo bene. Ci ho pensato per tutta la durata della presentazione del libro, ci penso spessissimo dall’agosto dell’anno scorso, da quel pomeriggio nel quale, di ritorno verso la città, l’uomo che mi stava accompagnando – un uomo che aveva trascorso gli anni della sua gioventù combattendo in difesa della sua città – si fermò a farmi vedere lo spuntone calcareo sul quale il cecchino restava sdraiato per ore in attesa della sua vittima. Era una posizione scomoda, ma perfetta per copertura e visuale. L’uomo che mi accompagnava riportò lo sguardo verso il basso, verso la città e il fiume che la attraversa: “erano bravi i serbi”, disse, e mi parve di sentire nella sua voce l’inevitabile e insopprimibile e paradossale ammirazione che una persona buona e onesta prova nei confronti di chi fa bene il suo lavoro anche se questo consiste nello sparare a un innocente che sta andando a comprare il pane. Era un riconoscimento che veniva da lontanissimo, dai nostri avi, dalla scuola, da un modo di stare al mondo che per arrivare a definire l’orrore deve fare una mezza dozzina di passi di razionalizzazione, prima dei quali sta la spontanea ammirazione per la combinazione di capacità e applicazione che rende alcuni soggetti speciali e li fa spiccare nel loro perimetro di competenza, sia questo il campo di calcio per Messi o la creazione e gestione del sistema di trasporto verso i campi di sterminio per Eichmann. “Erano estremamente ben addestrati”, continuò, “non sbagliavano mai”. Ferivano se volevano ferire, uccidevano se volevano uccidere, e noi eravamo lì, a chiederci senza forse voler davvero conoscere la risposta, cosa faceva diventare un uomo così bravo nel suo lavoro.

    “Gone Shootin'” è una vecchia canzone degli AC/DC, quelli dei tempi di Bon Scott. Parla di una ragazza e di droga, to shoot significa anche quello: iniettare, iniettarsi. Quanti mondi in una parola.

    02/11/2020

    “Sono vivi ma tu non lo senti”

    Filed under: — JE6 @ 17:28

    Oggi è il giorno che sul calendario sta a ricordare i morti. Tutti, senza distinzione: i morti come categoria, tutti quelli che non sono più qui; poi ognuno ha le sue date, i suoi anniversari, ai quali è più o meno legato, e lì diventa una faccenda privata e come tale da chiudere prima ancora di aprirla.
    Ma, tornando a quella che qualcuno chiamerebbe la dimensione collettiva: c’è una cosa alla quale ho fatto caso al ritorno dalla Bosnia, e in particolare da Sarajevo. Spesso, molto spesso, i nostri cimiteri stanno “fuori”. Fuori dai paesi e dalle città. Magari al loro limitare, in periferia o in quelle zone che sono una specie di terra di nessuno fra le case dei vivi e le campagne, dove queste resistono (certo, se ne trovano che stanno “in centro”: quando succede, o sono cimiteri monumentali, che quindi celebrano le grandezze delle città attraverso l’esaltazione dei suoi defunti illustri o molto ricchi, oppure sono stati inglobati dalla città che si andava a espandere verso chissà chi e chissà dove). E tutti, senza eccezione, sono rinchiusi in un recinto alto: un muro, in genere abbastanza alto da impedire la vista dall’esterno, che separa l’aldilà dall’aldiqua. E infatti diciamo che andiamo a trovare i morti: prendiamo, usciamo dalle nostre case, ci incamminiamo o più frequentemente saliamo in macchina e ci spostiamo appositamente, proprio per quel motivo.

    Sarajevo, dicevo. La prima cosa che ho visto di quella città meravigliosa è stato un cimitero, quello della moschea di Sarač Alija. Che poi era la cosa che volevo vedere: la moschea, non il cimitero, del quale non conoscevo l’esistenza. Mi ricordo che ci sono finito praticamente dentro, due passi prima non si vedeva nulla e due passi dopo avevo gli occhi a un metro dal nome inciso nel centro esatto della prima stele, che come tutte le altre era vicinissima alla strada, dalla quale veniva separata solo da una ringhiera e bastava allungare la mano per toccarla. Mi hanno spiegato che i musulmani bosniaci avevano l’abitudine di costruire i loro cimiteri vicino agli incroci delle vie, nel centro dei quartieri o intorno alle moschee così da ricordare la transitorietà della vita mentre la attraversavano muovendosi nel disbrigo dei loro affari. Dopo averlo saputo mi sono detto che forse è ancora così, forse lì è rimasto questo volersi tenere la morte come parte integrante della vita senza averne paura, senza desiderare di allontanarne il fantasma perché quello di Sarač Alija e tutti gli altri cimiteri che ho visto a Sarajevo – e sono stati molti, piccolissimi ed enormi – sono incastonati fra vie e case come lo sono le botteghe e i parcheggi, i luoghi di tutti i giorni: esci sul balcone e vedi il cimitero, vai a comprare il pane e se allunghi la mano puoi toccare le lapidi. Ci ho ripensato oggi, in questo giorno che per me è sempre un po’ strano perché qui non ho morti da andare a trovare se non quelli della famiglia allargata che ho avuto la fortuna di contribuire a costruire, mi sono chiesto se c’è un rapporto fra il nostro voler allontanare i cimiteri dai nostri occhi e il contemporaneo renderli dei tripudi celebrativi, vere orge di statue, piante, colori, fotografie, dediche, pupazzi, luci che dicono moltissimo dei vivi e ben poco dei morti ai quali sono apparentemente dedicate. Ci ho ripensato guardando una foto di quelle stele, tutte uguali tra loro, bianche, alte, con il nome e gli anni di nascita e morte incisi sopra quello struggente versetto del Corano, identico per tutti, che recita “E non dire di quelli che sono morti sulla via di Allah: ‘sono morti’. No, sono vivi ma tu non lo senti”.