Ha smesso da poco di piovere e ci sarebbe un silenzio quasi perfetto se non fosse per gli alberi della foresta che sta là dietro che vengono attraversati da un vento freddo un po’ fuori stagione. Su una placca di legno appesa a un muro di pietra qualcuno ha inciso “silenzio”, e mentre ci passo sopra gli occhi mi chiedo per un momento chi mai vorrebbe parlare in questo posto, che voglia di conversazione potrebbe mai avere. Vado avanti lungo la leggera salita che dopo una cinquantina di metri ti fa fermare a una cancellata. Guardo dietro le sbarre, che non sembrano quelle di una prigione ma pare che stiano lì a proteggere qualcuno, più probabilmente chi vive in una di quelle diciannove case di pietra che si vedono diramarsi da una stradina centrale che porta al cimitero, cioè il contrario delle sbarre del carcere che si dice servano alla sicurezza di noi che stiamo fuori. Appoggio la fronte, dal camino della seconda casa sulla sinistra esce un filo di fumo, quello che poi a qualcuno avrei detto sembrare l’unico segno di vita, e quanto mi sbagliavo, confondendo l’assenza con la morte. Resto lì a guardarlo, chiedendomi che faccia ha l’uomo che ha acceso il fuoco, com’è vestito, quando ha deciso di passare dall’altra parte di quelle sbarre, perché, se davvero parla con Dio o crede di farlo, cosa pensa quando ha la febbre e nessuno che gli chiede come stai, fingendo di capire qualcosa che mi sfugge, che è molto più lontana dei venti metri in orizzontale e dei due metri in verticale che mi separano da quell’uomo, e dal fuoco che ha acceso.