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30/04/2010
Per quanto tempo Italo Bocchino è stato vicecapogruppo dei deputati PdL? Una o due settimane? Ma no, dai. Qualcosina in più. Ma al “Giornale” si sono accorti solo negli ultimi giorni che è un tizio brutto, cattivo e inaffidabile. Quando si è sul pezzo, insomma.
Il Giornale
29/04/2010
“Your flight has been canceled, Sir”. Basta poco, quelle che con la dovuta vaghezza vengono chiamate technical reasons, per tirarti fuori dalla geografia, e per una manciata di ore dalla vita che diresti vera. Siamo in luoghi, viviamo in luoghi, andiamo e torniamo da luoghi – Milano, Londra, Carpi, Bosa Marina, 56th and Broadway – e poi a un certo punto capita che ti trovi da qualche parte che non sai e non puoi definire. Una sera e una notte in un albergo indicato con il numero di un autostrada e della relativa uscita. Non sei a Londra, non sei a Heathrow. Non sai dove sei. Forse è per quello che, superato il rifacimento dell’agenda dell’indomani e addolcita la stanchezza della giornata con una doccia calda, riesci a godere il silenzio ovattato e le luci basse ma non funeree, chiedi il tavolo più lontano dallo schermo sul quale passa una partita di calcio – “we’re not interested in football” – passi il tempo a raccontarti di viaggi in nave e a ridere dicendo mioddio a che ora tocca svegliarci domani mattina. Il mondo, fuori dalla cartina geografica, si riduce esattamente al tavolo del ristorante, alla finestra della camera che dà sul bar due piani più sotto, a te stesso, a una parentesi inattesa che ti obbliga a fermarti, a staccare, a pensare che non tutto il male viene per nuocere.
27/04/2010
A Notting Hill fa caldo, come ha fatto caldo per tutto il giorno. Le case a schiera, i private gardens, la strada in salita, i negozi degli antiquari, un’aria mista di film e paese ricco. Camminiamo guardandoci intorno, dribblando persone e discorsi, orientandoci con il palmare e con la vaga idea di dove siamo. Buttiamo l’occhio dietro le grandi vetrate senza tende di queste case, che danno l’idea che per chi vi abita un raggio di luce sia ben più importante della privacy – un lungo tavolo con un computer lasciato acceso, due uomini che conversano passando un dito sull’orlo del bicchiere, un quadro e una specchiera. Mi è capitato tante volte di provare questa sensazione – vicino al castello di Bratislava, nei dintorni di un albergo di Amsterdam – la sensazione di intromettermi nella vita degli altri pur facendo una cosa che loro mi consentivano di fare, guardare dentro la loro casa stando su marciapiede, magari con una macchina fotografica in mano. Ci ripenso mentre camminiamo verso l’albergo, quando scappa di dire “arrivo a casa e mi faccio la doccia”.
E’ tutto come dovrebbe essere, come ti aspetti che sia: la London Pride e la Old Peculiar e i menù scritti a mano, col gesso sulla lavagna, con quella calligrafia che hanno solo qui e in nessun altro luogo, e i divani in pelle rossa consunta e il legno e “Ladies” e “Gentlemen” e le due amiche e i quattro colleghi – e uno è enorme e i jeans gli scendono scoprendo un paio di mutande a disegni gialli e azzurri – e il barman che sembra George Harrison ma con i capelli rossi da irlandese da film e ognuno che racconta qualcosa e ognuno che ascolta qualcosa, come se l’universo mondo non fosse là fuori ma qui dentro, anche il bastardo senza cuore e l’amica-con-la-a-maiuscola che sa ogni segreto, come se questa non fosse una parentesi ma il racconto vero, quello principale, come se tutti fossero qui, in uno qualsiasi dei pub di Earl’s Court Road – anche se tu non vorresti, anche se tu stai cercando la solitudine perfetta, quella che sta unicamente dentro di te, ed è per quello che non la trovi, che non puoi trovarla più.
25/04/2010
Ti ricordi quello che diceva “resistere, resistere, resistere”?
Io sì. E sai, siccome è passato tanto tempo alla fine non è più così importante il motivo per cui lo diceva, quale fosse la goccia che aveva fatto traboccare il suo vaso. Non è quella la cosa che veramente conta. Forse non conta nemmeno che quel signore avesse ragione o torto.
Perché secondo me lui voleva dire una cosa molto semplice, che però è anche una cosa tanto difficile: “Fa’ la cosa giusta” (Do the right thing, dai, questo te lo ricordi, era un gran film). Ecco, fa’ la cosa giusta. Sembra facile, vero? E invece.
Invece, tanto spesso la cosa facile è adeguarsi, è dire sì perché lo dicono in tanti – e se lo dicono in tanti un motivo ci sarà, no? Mica possono essere tutti scemi, tutti disonesti, tutti ignoranti. E invece.
Invece funziona così, che finisce che tu giustifichi la tua pigrizia, la tua ignavia, il tuo girar la testa dall’altra parte perché lo fanno gli altri. E’ la banalità del male, una cosa senza grandezza se non quella dei numeri.
Però c’è anche la banalità del bene. Perché il bene mica si nasconde. Le cose giuste mica si nascondono: basta saperle vedere, basta voler guardare. Sono semplici, le cose giuste. Banali. Ma a volte costano più fatica. La fatica di dire no quando tanti dicono sì, o magari non dicono nulla e si adeguano e basta. La fatica di dirsi no. Ché la prima resistenza, sai, io credo che uno la faccia guardandosi allo specchio, la prima battaglia la combatte contro se stesso, contro la faccia scura della sua luna.
Resistere, resistere, resistere – e una volta che hai fatto quello tutto il resto viene da sè, e il bene – la cosa giusta – diventa persino banale tanto è naturale, perché è l’unica cosa da fare. E insomma, se hai voglia mettimi una mano sulla spalla e quando me lo dimentico ricordami quel titolo: do the right thing, fa’ la cosa giusta. Poi starà a me.
[Questo è uno dei due pezzi che sono finiti in questa cosa bella di cui si parlava qualche giorno fa. Ed è quello che la Paolina ha letto ieri sera, al Mattatoio di Carpi – un’altra cosa bella, la lettura e la serata tutta]
La giornata passa tra caselli, piccoli cani saltellanti, parole quasi dimenticate ridette a mezza voce, stazioni, sciroppo d’acero, immanenti presenze di persone sgradite e sbagliate, quadri, insalate, piazze enormi e vuote, batterie scariche, aspirine, cinture mancanti e tutto ciò che alla fine rimane solo in memoria, fino a quando iniziano le letture e in fondo sareste lì per questo, non solo per una giornata con gli amici – e per un momento è così per davvero, per un momento è la cosa giusta ricordare ciò che è stato tanto tempo fa e che ha permesso anche la giornata di oggi. Svuoti il bicchiere di plastica, mandi un ultimo messaggio, riprendi la strada verso casa. Riprendi.
24/04/2010
Hai voglia di stare un po’ da soli, io e te e basta?
Certo che sì.
Allora spegni l’iPhone, vuoi?
23/04/2010
Ogni tanto c’è gente che si mette di impegno a ricordarci perché la rete non è un posto più brutto della strada. Il Many è uno di questi, e ha fatto una cosa bella assai: questa. Andate, scaricate, leggete – e se domani passate a Carpi fermatevi ad ascoltare.
22/04/2010
“E non era nemmeno uno di quegli egoisti nati le cui premure per il prossimo non sono che un espediente per mascherare l’ansia cocente per il dolore che provano in prima persona e che, a dispetto di qualche breve sollievo, non li abbandona mai: il dolore, greve fardello su spalle inesperte, che costituisce il prezzo della consapevolezza”.
E’ solo questione di energie. Quelle che uno ha dentro, e che butta fuori. Se sia egoismo, come scrive Richard Mason, è difficile a dirsi; questione di punti di vista. Ma se sei così, vai avanti finché puoi – è più forte di te, e comunque pensi di doverlo fare perché è la sola cosa giusta. E’ che nei vasi comunicanti della vita, quel che metti da una parte lo togli dall’altra – fino a quando una sera ti trovi stremato e con il nulla in mano, con il dolore che costituisce il prezzo della consapevolezza seduto sul divano, a un metro da te. Dicono che ci voglia gente così, per fare andare avanti la baracca: gente così, che poi si siede, e guarda gli altri andare avanti, che si allontanano.
A volte capita che passi una bella serata – niente di speciale, semplicemente quello che augureresti a te stesso – e tra i baci e gli abbracci finali vengono fuori a mezza voce queste quattro parole: “Cerca di stare bene”. Le diciamo tutti non per posa né per abitudine, ma con convinzione, le diciamo tutti per sentircele ripetere con altrettanta partecipazione e rispondere con una specie di sorriso indifeso “Sì, ci provo”. A volte capita che ti addormenti con questa sensazione strana addosso, perché sarebbe bello non aver bisogno di quell’esortazione, e pensi che ci sono dei momenti nei quali l’unione fa veramente la forza, anche se è un’unione di debolezze e inciampi e giornate di lavoro troppo lunghe e affetti faticosi. E’ una forza che dura poco, appunto il tempo di addormentarsi o quello che passa tra il risveglio e la colazione; ma c’è, e anche grazie a quella si va avanti.
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