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30/06/2010
Il gioco del sarcasmo sociale richiede che, alla fine, i giocatori siano essere pochi. Ed è un gioco nel quale bisogna fare moltissima attenzione, perché non sempre è sufficiente capire – e far capire – che si tratta di sarcasmo. Siamo umani, e niente ci toglie l’idea che dietro la battuta ironica di un amico o di una persona persino molto cara stia la stilla di cattiveria che si dedica solo a chi ci sta nel cuore per davvero.
Mi pare disdicevole che il PresDelCons non abbia ancora premiato la condanna di Dell’Utri con un ministero con portafoglio assegnato per i risultati conquistati sul campo.
28/06/2010
L’uomo spegne l’autoradio e si assesta su una tranquilla velocità di crociera. Si guarda intorno, un’occhiata alle montagne, una al lago, una al telefono. Il grande cartello verde indica che tra due chilometri incontrerà il primo bivio. L’uomo rallenta ancora, dandosi qualche altro secondo per prendere una decisione sulla strada da seguire in questo giorno che non ha mete fissate sul navigatore. Sa di essere arrivato, chissà quanto involontariamente, nel posto sbagliato, e di averlo fatto nel momento sbagliato. Guarda di fronte a sè, fissando la lontana montagna e il passo innevato. Guarda sulla sua destra, vede le mura di roccia della città vecchia. Arriva allo svincolo, e non ha dubbi. Esce dall’autostrada, e trova rifugio.
26/06/2010
Quando entro al Cimitero Monumentale – uno di quei rari posti per i quali le maiuscole del nome sono giustificate – ci sono trentacinque gradi e il silenzio della città che aspetta l’ombra e l’ora dell’aperitivo. Non è la prima volta che vengo qui. Di solito lo faccio come se fosse un museo, una lunghissima galleria di statue e dipinti e bassorilievi che non ti fanno pensare né alla tristezza della morte né alle corse a volte felici della vita. Questa volta, invece. Guardo le espressioni delle statue, guardo le foto sulle lapidi. Mi pare di vedere e di sentire com’era davvero questa città quando era ancora Milano. Non sorridevano i cavalieri e i ragionieri e i dottori ingegneri, non sorridevano le madri amorevoli e i padri probi, non sorridevano le lavoratrici indefesse e i soldati eroici che morivano nel 1914 o nel 1927 o financo nel 1954. Non sorridevano, ma non avevano l’aria triste, né incattivita. Avevano quella faccia che sembrava dire “avevo un lavoro da fare, l’ho fatto, sono contento e in pace”. Penso alle fotografie di questi anni – le mie, quelle dei miei amici, quelle delle persone che conosco – penso alle facce che vedo – la mia, quelle dei miei amici, quelle delle persone che conosco – e mi pare che espressioni così non se ne vedano più. Siamo sempre ingrugniti, con la faccia di “la vita è uno schifo e noi siamo qui per soffrire”, oppure sorridenti da un orecchio all’altro, con la faccia di “è tutto magnifico, non si vede?” – e alla fine sembriamo sempre in posa. Mi chiedo cosa scriveremmo sulle nostre tombe, cosa scriverebbero di noi quelli che ci conoscono, cosa penseranno di noi i visitatori dei cimiteri del futuro guardando le nostre fotografie. Mentre esco incrocio una comitiva di turisti francesi. Dal parcheggio si vede l’inizio di viale Pasubio, e dietro quei palazzi Corso Como, si preparano le pizzette dell’happy hour.
25/06/2010
Sarà che nel corso degli anni il calcio mi è venuto sempre più a noia, al punto di non seguire più trasmissioni dedicate e non essere più capace di guardare una partita dall’inizio alla fine senza tempestarla di zapping selvaggio a beneficio anche di canali improbabili come Ceramicanda e Spy Tv, sarà questo e forse altro, non so, ma son qui che mi chiedo come e perché la squadra nazionale di calcio possa e debba essere considerata come un simbolo calzante di ciò che siamo come Paese, come Gattuso e Iaquinta e Lippi e Abete ne possano e debbano rappresentare la struttura sociale e le caratteristiche antropologiche – come se quattro anni fa questo fosse un paese giovane, flessibile, ben governato, con il senso della comunità, sorridente, energico, capace di non usare il termine “vergogna” a sproposito.
Il calcio sarebbe uno sport magnifico, se non ci fossero cento giornali, mille televisioni e sessanta milioni di esperti a commentarlo.
24/06/2010
Alle nove di sera la grande piazza del municipio è vuota. Dalla finestra dell’ufficio del sindaco pendono le bandiere, una coppia esce dalla spaghetteria sotto i portici, un gruppo di ragazzi fuma fuori da un bar. C’è il silenzio dei paesi che entrano nell’estate aspettando i turisti, e l’aria fresca dell’ombra che arriva dalle colline e dai palazzi di mattoni piccoli e chiari. Su un marciapiede camminano tre donne, l’una al fianco dell’altra, con il golfino grigio infilato sulle spalle solide da vecchie contadine. Qualche passo dietro tre uomini, certamente i mariti, con le camicie a maniche corte, che parlano in dialetto, due con le mani raccolte e incrociate dietro la schiena, uno che gesticola piano spiegando chissà cosa. La coppia, sul lato opposto della piazza, li guarda e sorride. Senza prenderli in giro, ma con una specie di lontana e delicata invidia per quel che quelle sei persone sembrano essere, ed essere diventate. I due ragazzi svoltano l’angolo, lei guarda il display del telefono – quanto manca per arrivare a casa?
Nel futuro, ciascuno avrà diritto a un quarto d’ora di legittimo impedimento.
22/06/2010
La coppia cammina svelta sul marciapiede, spingendo le mani in fondo alle tasche delle giacche a vento. Fa molto freddo. I due non parlano. Arrivano alla fermata della metropolitana, scendono le scale, guardano la cartina per capire quale linea prendere e a quale fermata scendere. Quando si trovano di fronte alla macchina che vende i biglietti incrociano gli sguardi, come se si stessero chiedendo cosa ci fanno lì. Lui fruga nei jeans, estrae tre monete, le inserisce nella macchina.
19/06/2010
Aveva avuto mal di testa per tutto il giorno. Per un po’ aveva provato a ricordare cosa avesse fatto la sera prima, con chi fosse stato, in quale albergo di terz’ordine si fosse fermato. Poi aveva rinunciato. Si alzò dal divano, andò in bagno, si fissò nello specchio. Vide che aveva gli occhi iniettati di sangue, in un modo così evidente che pareva fosse stato preso a pugni, senza però averne né i dolori né i lividi. Decise di tornare a sdraiarsi – un po’ di riposo non mi può far male, pensò. Accese la televisione per avere quel rumore di sottofondo che lo aiutava a prendere sonno. Era ancora seduto quando, con un gesto istintivo, si sfregò gli occhi. Sentì dell’umido sulle dita. Umido e appiccicoso. Si guardò i polpastrelli e li vide rossi. Sangue. Molto sangue. Sentì il liquido scendere piano lungo il viso, giù verso la bocca. Sentì la testa che esplodeva e le pupille che si perdevano, come se ciò che aveva là sopra, dentro di sé, stesse uscendo tutto, come un fiume al quale viene tolto un ostacolo, come un bicchiere che si rovescia. Completamente accecato, mentre perdeva i sensi senza sapere se li avrebbe mai più recuperati, riuscì solo a pensare “lontano dagli occhi, lontano dal cuore”.
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