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28/07/2012
Se ne avessi voglia proverei ad articolare una di quelle cose tipo peggio-di-quelli-che ma, appunto, di voglia ne ho pochina. Allora guarda, il fatto è che a me piacciono la Regina, i pub, i prati verdi e le nuvole basse, piacciono il rock e il pop e il prog e il punk, piacciono il question time ai Comuni e i private gardens, piacciono i registi bravi il Chelsea l’Arsenal lo United il QPR il WBA Nick Hornby e pure Hugh Grant, piace l’orgoglio quando riesce a non diventare macchietta, la birra a temperatura ambiente e Maggie Thatcher e la mancanza del bidet un po’ meno ma in fondo mica si può aver tutto dalla vita, a me ci son tante cose che piacciono, ho imparato a fregarmene se sono originali o d’importazione e non perdo tempo a fare l’elenco delle cose che mi piacciono e che stanno qui dietro proprio girato l’angolo perché nn cambia nulla – sono un provinciale malato di esterofilia, dici? Eh beh, mi sa di sì, e chissenefrega.
26/07/2012
Lo capisci subito che M. non è di qui. I lineamenti, il colore dei capelli, la forma delle labbra. E infatti è nato in Libano, ha vissuto in Francia e in Algeria, ha sposato una finlandese, lavora in Slovenia, un paio di volte al mese va a Zagabria e Belgrado. Non siamo amici – I always say to my people, you can’t be too friendly with your suppliers – ma ci portiamo quella strana forma di rispetto e simpatia della gente che si è scontrata sulle cose di lavoro ed è riuscita a venirne fuori con una soluzione. Parliamo sorridendo della prima riunione che abbiamo fatto insieme, trenta minuti secchi a disposizione per convincerlo a comprare un progetto che mi aveva portato via quattro mesi di preparazione e non meno di una ventina di ore di presentazione a tutto il team del marketing, eravamo seduti gli uni di fronte agli altri e in mezzo il ragno della conference call, questo si mette a suonare, ovviamente nessuno risponde, lui senza smettere di guardarmi in faccia allunga la mano, prende l’aggeggio, lo rovescia e stacca il cavo del telefono – now you can continue: gli dico “sei un fenicio”, che a suo modo per me è un complimento, e lui lo prende come tale, ride, yes I think I am. Gli chiedo com’è vivere qui, lui finisce il vino bianco che ha nel bicchiere, puoi vivere bene in qualsiasi parte del mondo se hai degli amici che puoi vedere la sera e una terrazza o un salotto dove bere un bicchiere di vino, dice. Guardiamo le ore, manca poco alle due, se non sbaglio hai una riunione tra poco, sì, ok, grazie per il pranzo, il prossimo è mio.
22/07/2012
Sai quei film americani, quelli che c’è uno che licenzia e uno che viene licenziato, e quest’ultimo è il buono – padre amorevole, casa con il mutuo, gran lavoratore, un cane e un giardino ben curato, station wagon di sei anni -, ecco, due volte su tre c’è la scena che il primo lascia la pink slip sulla scrivania del secondo e poi prende un aereo per Las Vegas, oppure lo chiama nel suo ufficio e gli dà la notizia voltandogli le spalle, guardando fuori dalla finestra, e quell’altro, il licenziando, si incazza e gli dice almeno abbi il coraggio di guardarmi negli occhi. Siamo sempre tutti dalla parte del buono, altrimenti che buono sarebbe, mica stiamo parlando del fascinoso figlio di buona donna e della casalinga di Voghera o la manager di Ancona, guardalo in faccia se hai il coraggio, un po’ di dignità visto che lo stai licenziando e mettendo su una strada. Siamo sempre tutti dalla parte del buono, fino a quando non ci tocca vestire i panni del cattivo. E allora, anche se hai la coscienza a posto, se sai di aver fatto tutto quello che c’era da fare, se hai dato tutte le chances alle quali il buono aveva diritto, anche se tutto questo e pure altro, beh, quanto hai voglia di dargli le spalle e guardare fuori dalla finestra.
18/07/2012
Il fatto è che io Praga me la ricordavo diversa, era febbraio, faceva freddo, in giro c’era poca gente e buona parte di quella poca cercava di venderti qualche droga. Invece adesso è estate – lo dice il calendario, ci sono diciotto gradi, ogni tanto butta giù uno scroscio di pioggia tropicale – però ci sono milioni di persone in strada, e siccome il calendario non lo si contesta oltre al giubbottino impermeabile hanno tutti i bermuda e i sandali e le tshirt colorate, sul Karluv Most c’è la fila per esprimere un desiderio mettendo le cinque dita della mano sulle punte di quella specie di stella o di fiore in metallo messa sotto i lucchetti dell’amore, c’è in sottofondo un brusio fatto di centomila voci e cinquantamila flash che ti accompagna fino al rientro in albergo. E’ l’estate, tipo, e mi pare di esser qui per la prima volta.
17/07/2012
Durante i quattro minuti di ritardo che l’Eurocity si porta in dote al binario 2 si ferma, per qualche decina di secondi, uno strano terzetto. Una locomotiva tutta ammaccata, come se avesse preso a testate muri e passaggi a livello e tronchi e dio sa cos’altro ancora. Un vagone letto. E un vagone normale. Russian Railways, leggo sotto le scritte in cirillico, ed è la seconda volta in due giorni che provo la nostalgia di un vero viaggio in treno, niente alta velocità, niente giacche e cravatte, odore di traversine, scritte incomprensibili. Salgo sul mio treno, Brno Praga Berlino Amburgo, il vagone mi fa la stessa impressione di strana e inusuale larghezza, come quelli delle metropolitane dell’est, di Budapest e Bucarest, eppure lo scartamento dovrebbe essere il nostro, non andiamo a oriente. Appena fuori da Bratislava inizia la campagna, il verde scuro dei boschi, dei vigneti, di una giornata nuvolosa che diventerà tra poco piovosa. Questo mi è sempre piaciuto del treno, lo stare lontano dai paesi fino all’arrivo in stazione, l’idea – spesso falsa, lo so – che là fuori ci sia natura, ci siano campi e foreste e torrenti e strade secondarie che corrono in parallelo ai binari. Il paesaggio continua monotono, malinconico e rassicurante, accendo il computer per spegnerlo cinquantanove minuti dopo con la sensazione che avrei fatto meglio a guardare fuori dal finestrino, guardo lo schermo del telefono e vedo che Sk è diventato Cz, siamo in repubblica ceca. Poco dopo Brno vedo pescatori intabarrati nelle loro cerate fissare canne che non si muoveranno per il resto della giornata, mentre i due ragazzi che sono appena saliti e mi si sono seduti a fianco mangiano enormi frittate in attesa di arrivare a Berlino per poi volare in Islanda con una loro amica. L’orologio mi dice che dovrei essere a Milano per un funerale, e invece rileggo gli appunti per gli appuntamenti del pomeriggio. Il vagone si addormenta, una nonna tira fuori da una borsa un panino per il nipote tanto biondo da essere albino, fuori sono pozzanghere, campi di grano, alberi di un verde da Alto Adige, vento, fornaci, autosaloni. Penso che l’unico vero grande difetto del treno è che, a differenza dell’aereo (e chissà per quanto ancora), il telefono funziona e la parentesi non può essere completa, totale – lo so, basterebbe spegnerlo, ma non si può visto che si può. Arriviamo a Praga, c’è il tempo di cambiare un po’ di valuta, di mangiare un boccone, di uscire dalla parentesi. Ha smesso di piovere, ma sembra che riprenderà presto.
(E’ la prima volta che scrivo un Greetings conto terzi. Diciamo che è un regalo per il tenutario di un blog su treni e stazioni e annessi e connessi. Lo ha pubblicato lui per primo, lo trovate qui, date un’occhiata anche al resto, mi raccomando)
16/07/2012
Per i casi della vita, negli ultimi tempi sto girando solo per città che hanno passato qualche decennio sotto governi comunisti – Shanghai, Belgrado, Budapest, Ljubljana, Zagabria, oggi Bratislava, domani Praga. E onestamente, se avessi quindici anni e nessuno mi avesse fatto leggere qualche libro di storia, tracce di questo passato io non sarei in grado di trovarne. Forse la statua di Mao vicino al Bund a Shanghai, che però se ne sta ben incastonata tra i grattacieli di Pudong che assomigliano tanto a Manhattan vista da Brooklyn e il grattacielo della Bank of China. Per il resto nulla, come se questo passato fosse stato accuratamente cancellato, oppure semplicemente inghiottito da Ikea, dall’Euro, dalla trickle down economy, da Internet. E così poco fa, quando ho attraversato Námestie Ľudovíta Štúra lasciandomi alle spalle il Danubio che è marrone a dispetto di tutti gli Strauss e mi sono trovato di fronte questa enorme statua di Stalin non ho potuto fare a meno di chiedermi se stavo sognando, cosa diamine ci faceva lì, senza una targa, senza un apparente motivo al mondo, come se i russi prima e i maggiorenti del partito comunista cecoslovacco poi e i fondatori della nuova Slovacchia infine se la fossero dimenticata, un po’ come le scritte Credere Obbedire Combattere che noi italiani abbiamo lasciato sui muri di mezzo paese per pigrizia o per ignavia, buona solo per permettere a un italiano che sta andando a cena di fermare un americano e chiedergli excuse me sir, can you take me a picture.
Vado alla stazione ferroviaria per comprare il biglietto per Praga, otto ore andata e ritorno tra domani e dopo per quaranta euro prenotazione inclusa. Mentre sto per uscire mi arriva una telefonata dall’ufficio, resto qualche minuto a parlare, sì ci sto lavorando, appena ho qualcosa ti faccio sapere. Quando chiudo la comunicazione un ragazzo che sta seduto sopra una valigia rigida verde acido mi dice allora, ti piace Bratislava – scusa, ti ho sentito parlare al telefono, ho capito che sei italiano, io vengo da Catania, è la prima volta che vieni qui? Non ho particolare fretta, mi fermo a fare due chiacchiere, no, sono venuto anni fa, sì mi piace molto e poi le solite cose tra italiani che si incontrano all’estero, dove vai da dove vieni sei qui per lavoro. Mi racconta che è un insegnante, ha trentotto anni e sta facendo l’InterRail, io sospiro, l’ho fatto anch’io cent’anni fa gli dico, mi parla un po’ del suo giro, Berlino, Praga, tra poco va a Budapest ma sul tabellone delle partenze non è ancora segnato il binario. Ci salutiamo, allora buon viaggio gli dico, grazie piacere di averti conosciuto risponde lui, poi lui si dirige verso il sottopasso che porta a tutti i binari successivi al primo. Io faccio due passi lungo la banchina, guardo due operai che lavorano, il grande cartello con la scritta bianca su fondo blu che dice che siamo a Bratislava Hlavna Stanica, una locomotiva su un binario morto, la targa che ricorda i centocinquant’anni delle ferrovie slovacche. Poi guardo i quattro tabelloni delle partenze, uno per ogni direttrice principale che esce dalla città, ci sono nomi locali, Kosice, Rusovce, e poi Praga, e Vienna, e Berlino, Belgrado, Budapest, mi torna in mente quella notte nella stazione di Copenhagen, cent’anni fa, quando io e Paolo ci guardammo in faccia alle cinque del mattino – dormi? ma figurati, allora che facciamo, il primo treno, va bene, e salimmo su un treno alla cieca, il primo che lasciava la stazione, e meno di un’ora dopo stavamo guardando il castello di Helsingor, e meno di due ore dopo eravamo in Svezia, e no, non mi lamento, viaggio tanto e mi pagano per farlo, però una stilla di invidia per l’uomo di Catania che adesso è sulla strada per Budapest e sente il suono ritmico delle traversine sotto i suoi piedi, una stilla sì.
13/07/2012
Nell’arco di una mezz’ora passo dalla moschea di Bajrakli alla cattedrale di san Michele arcangelo. Se si potesse guardare la città dall’alto, si vedrebbe il fiume di persone che fa lo struscio in Knez Mihailova con un cono gelato in mano, e due isole di silenzio, una a destra e l’altra a sinistra, e queste isole sarebbero i due templi. In uno, la chiesa ortodossa, entro; nell’altra mi fermo sulla soglia. Entrambe sono piccole, entrambe hanno i tappeti per terra, entrambe hanno quattro persone al loro interno. In entrambe c’è quella cosa che non abbiamo altri termini per definirla che non sia pace, e sicuramente non è la parola giusta. Entrambe sembrano dire vieni, non avere timore, non pensare alle guerre che abbiamo fatto. Quando esco dalle chiese faccio il segno della croce, fa parte della mia cultura, della mia tradizione; quando mi allontano da Bajrakli e da san Michele arcangelo vorrei fare la stessa cosa, un segno, come di saluto, come di rispetto. Però il mio segno non è il loro, mi chiedo se non sia una cosa stupida, se Dio non c’è è una cosa stupida di sicuro, se Dio c’è preferisco credere che non si formalizzi più di tanto, in fondo se saluti un amico mica ti metti a fare tante differenze tra una stretta di mano e una pacca sulla spalla, allora esco e tocco il legno della porta, se Dio c’è spero che gli basti.
Knez Mihailova è la strada dello shopping, una bella via pedonale asburgica, dove quando il caldo si attenua ci si siede all’aperto a bere, con tutte le vetrine giuste – non proprio Via Condotti, un po’ meno sfarzosa, un po’ più alla mano come tutta la città, sarà che quando non si nuota nell’oro ce la si tira di meno, non so. Comunque, Knez Mihailova porta fino al parco di Kalegmedan, quello con il castello, quello dal quale si vede la confluenza tra la Sava e il Danubio e realizzi che finalmente vedi quest’ultimo un po’ meno marrone di quanto non sia a Vienna e Budapest, per l’azzurro aspetteremo la prossima vita. Knez Mihailova è la strada dove Belgrado mostra il meglio di sè, i negozi, le gallerie d’arte, le migliaia di ragazze altissime e bellissime, i palazzi nobili, le banche. Alla fine della via, poco prima del semaforo che dà sul parco e sulle bancarelle di souvenir, stanno sedute una mezza dozzina di donne. Sono tutte di mezza età, qualcuna anche oltre, un paio hanno vicini degli uomini, forse i mariti, seduti anche loro con l’aria impassibile che a me ricorda i miei nonni nuragici. Hanno quasi tutte in mano i ferri dell’uncinetto, sono occupate a creare centrini, e tutte quelle cose che stanno sopra i tavoli e sotto i soprammobili e delle quali io non so il nome, alcuni sono delle vere opere d’arte, altri li potreste trovare a un banco di beneficienza davanti a una chiesa di Milano ma non importa, importa che siano lì, a pochi metri dalle vetrine di Knez Mihailova, figlie di un tempo passato da una vita, inutili come tante cose oneste.
10/07/2012
Zoran mostra una cinquantina d’anni, ha i capelli bianchi ispidi, le scarpe grosse, i calzini corti e la camicia a mezza manica. L’ho incontrato per la prima volta a febbraio, quando a Belgrado c’erano piccole montagne di neve sporca e ghiacciata ai lati delle strade e l’unico colore che si poteva vedere era il grigio, di una sola tonalità . Mi ha sempre dato l’impressione di un onesto artigiano, e forse lo è nel suo lavoro. Ma oggi, nei quaranta gradi dell’estate serba, ci porta in riva a questo lago che sta a dieci minuti da Novi Beograd, a mangiare quintali di carne dicendoci ho riservato la giornata per voi, se non avete fretta possiamo restare qui sotto gli alberi a prendere quel poco di fresco possibile, con i pavoni che ci girano tra i piedi e la gente in costume che ci guarda strana. Noi accettiamo, e quando abbiamo finito di discutere delle nostre cose di lavoro non so bene come ci troviamo a parlare della guerra, non potete immaginare il male che ho visto ci dice serio parlando del suo paese, e racconta, e vengono fuori i suoi studi, la laurea in filosofia, i figli che della ex Jugoslavia se ne fregano, viene semplicemente fuori una persona che non conoscevamo, che non ci aspettavamo, che ci piace stare a sentire, con la quale ci piace stare a parlare – quando riprendiamo il taxi per l’aeroporto ci ringrazia come se gli avessimo fatto un onore a venire qui da Milano, e invece lo ringraziamo noi, e per una volta siamo onesti, hope to be back soon.
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