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29/12/2005
Ma a voi, com’è andato questo 2005?
Nella cerchia di persone che conosco (amici, amici-blogger, colleghi, semplici conoscenti [cit.]) vedo tanti musi lunghi e semilunghi. Fatta la tara del vittimismo di maniera al quale indulgiamo in tanti, non pare essere stato un anno di quelli da ricordare col sorriso sulle labbra. Discorso lungo, lo so, di quelli che fanno facilmente scivolare nella sociologia da prima pagina del Corriere.
Però, fra tante nuvole vere o farlocche, capita di intravvedere dei raggi di sole. Mi è arrivata una mail di auguri, qualche giorno fa, che riporto quasi integralmente perchè mi ha mosso al sorriso e ad una benevola invidia:
Beh, stavo pensando che se dovessi augurare una cosa bella agli amici sarebbe di avere un nuovo anno come quello che per me volge al termine. Non ho vinto al superena, tranquillo, è che ‘sto 2005 me lo sento addosso come certi venticelli di maggio, quelli leggeri leggeri e che di tanto in tanto ti danno i brividi.
Nient’altro, allora, solo Auguri!
Ecco, appunto.
28/12/2005
Non li ho mai votati, e dubito che mai lo farò (almeno fino a quando non saranno depannellizzati e decapezzonizzati), ma nutro una certa temperata ammirazione per i Radicali. Gli riconosco quindi il merito di aver tentato di infilare nella cosiddetta agenda politica anche il tema delle carceri e delle loro condizioni.
Ciò nonostante, non penso sia negabile il fatto che di amnistia si è ripreso a parlare con un minimo di frequenza e di intensità solo dopo che Giovanni Paolo II, più di tre anni fa, ne fece esplicita richiesta di fronte al Parlamento riunito in seduta comune.
Siccome, per tanti motivi (alcuni validi, altri meno), è più facile ignorare Pannella-Capezzone-Bonino piuttosto che il Papa, alle richieste di quest’ultimo i partiti italiani diedero apparentemente grande attenzione e si produssero in dichiarazioni di intenti che sarebbe fin troppo facile, oggi, sbertucciare à-la-Travaglio. Gli è che i politici italiani, e gli ex democristiani su tutti, sono mostruosamente abili nel far passare il tempo e far cadere nel dimenticatoio qualunque questione di qualunque importanza, se questa non è di stringente interesse per i propri elettori: Papa o non Papa. Perchè la realtà è questa: di amnistie e indulti, gli italiani non ne vogliono sentir parlare; sono contrari, detto con altre parole, in larga maggioranza. E se non lo sono, non gliene frega nulla. E allora, muro di gomma. Tanto, morto un Papa se ne fa un altro – che muore pure lui, no?
(“Casini l’ha fatto apposta, è stata ignobile la convocazione il 27, io sono rimasta con mia figlia che è venuta da Praga dove fa l’Erasmus” – Katia Bellillo, su Repubblica hard-copy di oggi)
27/12/2005
C’è qualcuno che può seriamente e sinceramente dirsi sorpreso della poco allegra buffonata che si sta svolgendo alla Camera in queste ore? C’è qualcuno che seriamente e sinceramente pensava che gli onorevoli deputati della Repubblica si sarebbero premurati di tornare a Roma subito dopo Natale per discutere di un tema che – diciamo pure questo – non sta in cima alle priorità dei loro elettori (i quali, anzi – ma magari mi sbaglio – sono proprio contrari a “svuotare le carceri”)? A Natale si è tutti più buoni, ma adesso è passato anche Santo Stefano, per chi non se ne fosse accorto.
Repubblica.it
24/12/2005
Grazie a Dio, in questa città non conosciamo nessuno, e nessuno ci conosce. Così, non dobbiamo dare spiegazioni, non dobbiamo affrontare sorrisini, non dobbiamo sopportare l’incredulità.
Perché, vedete, non è facile nemmeno per noi. Credere a quello che ci sta succedendo, dico. Insomma, mettetevi nei nostri panni. Io, che faccio il falegname come mio padre e mio nonno: più per non dare un dispiacere a loro due chiudendo la bottega, ma sempre falegname sono. E mi chiamo Giuseppe, come tanti uomini del paese. Poi, mia moglie. Una bella ragazza, sapete. Di quelle che si dice “acqua e sapone”, una ragazza semplice e forte, capace di tenere la casa come nessun’altra. E sì, certo: si chiama Maria. Come tante, tante altre donne del paese.
Volevamo un figlio. Lo abbiamo sempre voluto, fin da prima di sposarci, fin da quando abbiamo deciso di metterci insieme, di fidanzarci. Fin dalla prima volta che abbiamo fatto l’amore, nascosti nell’ovile di proprietà di quello che sarebbe diventato mio suocero. C’era un asino, che non vedevamo ma che potevamo sentire bene, quando ragliava legato alla staccionata esterna, e naturalmente c’erano le pecore, che mangiavano tranquille l’erba fresca e verde della primavera. In effetti, mancava il bue, ma mi crederete se dico che non ne sentivamo la mancanza. Ci amavamo tanto, così come oggi. Facemmo l’amore molte altre volte, dopo quel giorno (molte, dico, ma non so se è vero, perché molto e poco sono parole che cambiano di senso con le bocche che le pronunciano), e sempre pensando al figlio che un giorno avremmo avuto.
Ma quel giorno non arrivava mai. Iniziammo a preoccuparci, perché Maria era giovane ed aveva molto tempo davanti a sé, ma io cominciavo ad essere anziano, e non volevo diventare padre all’età in cui si dovrebbero invece avere dei nipotini da curare. Decidemmo di fare i mille esami e di sottoporci alle mille torture piccole e grandi che Maria sopportò grazie alla sua grande fede e che io sopportai grazie a Maria. E alla fine, i medici ci presentarono una soluzione. Quella che potete immaginare, sì.
Così, oggi ci troviamo in questa clinica di una grande città molto distante dal piccolo paese dal quale io e mia moglie veniamo. Io, Giuseppe il falegname. Lei, Maria la casalinga. E il bambino nel suo ventre, figlio del seme di uno sconosciuto entrato grazie ad una siringa. Ammetterete che si tratta di una situazione un po’, come dire, strana. O forse no, ma io non ho studiato molto, e non so come definirla altrimenti.
Perché poi, vedete, non è finita qui. Maria ha iniziato il travaglio qualche minuto fa. Le infermiere mi hanno detto di uscire a fumarmi una sigaretta per calmarmi, e poi di tornare per darle una mano a partorire. Poco fuori dall’entrata del reparto ho incontrato un prete che passava a benedire il reparto e le future mamme, mentre al termine del corridoio, a fianco della grande vetrata che permette di vedere i bambini appena nati, ho visto una piccola montagna di pacchetti, lucidi di carte colorate e nastri arricciati. Sarò io che mi faccio suggestionare facilmente, ma il prete e i regali, ecco, mi hanno fatto venire in mente i re magi, e l’oro, e l’incenso, e la mirra.
Adesso sto tornando da Maria. Ho guardato in fretta l’orologio; mancano solo sei minuti a mezzanotte, e non credo che il bambino nascerà prima che il giorno finisca. No, non credo. Nascerà domani. E domani è il venticinque dicembre.
A questo punto, forse vorrete sapere se abbiamo deciso il nome del bambino. Sapete, dalle nostre parti ci sono ancora, anche se meno forti di un tempo, certe usanze, come quella di dare al nipote il nome del nonno paterno. Io vi vedo, mentre roteate gli occhi e dite “ma no, figurati, non è possibile”; ma non è colpa mia, se anche mio nonno portava un nome tanto comune nel paesino dove siamo nati e cresciuti. Salvatore, già.
23/12/2005
Facciamo che non ci sono lustrini, spumanti, renne col naso rosso, barbe bianche e bambini festanti. O magari sì. Facciamo che ti fai gli auguri, insomma, che speri qualcosa per te e per i giorni che verranno. E facciamo che io, quegli auguri, li firmo. Buon Natale.
22/12/2005
Sign o’ the times calcistici (ma non solo, a pensarci bene), grazie a Emanuele Gamba, su Repubblica:
“Avremmo infine preferito che Totti ci lasciasse del 2005 un ricordo migliore di quell’esultanza pacchiana, esagerata, fuori luogo. Qualche mese fa aveva “partorito”, mercoledì ha “allattato”. Nulla di spontaneo, tutto preparato, come se l’importante non fosse segnare ma festeggiare, spettacolarizzando pure un evento intimo come la nascita di un figlio. Che nostalgia per quelli che esultavano alzando le braccia al cielo, senza pensarci troppo sopra, o che sfogavano l’istinto come il Tardelli mundial. L’esagitazione dei suoi eredi è un eccesso che testimonia come il calcio sia precipitato verso un mondo d’apparenza, fasullo e nevrastenico, perfettamente accompagnato dalla strepitante colonna sonora dei telecronisti che ne cantano la gesta. Del resto, il più delle volte si urla proprio quando non si ha nulla da dire.”
Repubblica.it
Un paio di giorni fa, una signora di mia conoscenza incontra, camminando per le strade della periferia ovest di Milano, una donna; piuttosto confusa, e abbigliata in modo sommario. Le si avvicina, e le chiede se ha bisogno di qualcosa. La prima risposta è “Siamo in Italia?”, e da quella si capisce che la donna ha certo bisogno: di aiuto.
La donna inizia a estrarre fogliettini da una borsa, sui quali si trovano numeri di ogni tipo. La signora di mia conoscenza inizia a digitarli sul cellulare, senza risultato.
Nel frattempo, data la temperatura padana di questi giorni, conduce la donna in un bar, le fa bere qualcosa di caldo, la aiuta a calmarsi. Finalmente, su uno dei fogliettini legge un numero che assomiglia a quello di un cellulare; digita, e risponde una giovane in palese stato d’ansia che si rivela essere la figlia della donna che, in quel momento, sta riprendendo coscienza di sè seduta al tavolo di un bar. La donna ha settantotto anni e si era persa due giorni prima; le ricerche della polizia erano appena iniziate, perchè pare che in caso di scomparsa di adulti si debbano far passare almeno quarantotto ore prima di mobilitare le forze dell’ordine. Vestita alla bell’e meglio, la donna ha passato due notti e quasi due giorni fuori di casa, vagando confusa, infreddolita e affamata. Fino a quando è passata sulla sua strada la signora di mia conoscenza, che ha “perso” due ore del suo tempo interessandosi a lei e permettendole di ritornare a casa.
Niente di nuovo sotto il sole, le città funzionano (anche) così. Mi chiedo come mi sarei comportato io, al posto della signora di mia conoscenza.
Un aspetto scorante e affascinante del Belpaese è la sua assoluta incapacità di fare un programma e realizzarlo senza scostamenti, salvataggi in corner, colpi di culo e aggiungete un po’ voi, tanto ci siamo capiti.
Per dire, si fa domanda di poter organizzare le Olimpiadi invernali, la richiesta viene accolta, si fa partire la cosiddetta macchina organizzativa, e a meno di due mesi dall’inizio dell’evento ci si rende conto che mancano un bel po’ di milioni di euro in cassa. Capito? Non due anni prima: due mesi. Così, si adotta una soluzione molto professionale per non dichiarare bancarotta: si organizza un bel “gratta e vinci”, e si raggranellano 24 dei 64 milioni di euro mancanti. Che dire? Chapeau.
Corriere.it
21/12/2005
Imperdibile collezione di R.A.N. (Regali Aziendali Natalizi) raccontata da EmmeBi. Provo a mettermi nei panni dello sciagurato che si è dovuto portare una canoa in Via Torino, ma poi mi chiedo chi me lo fa fare.
EmmeBi
20/12/2005
Non so come vanno le cose negli USA, dove gli stadi cambiano nome con il cambiare dello sponsor (per dire, ad Atlanta cercavo l’Omni e mi sono trovato di fronte alla Philips Arena: naming rights, li chiamano). So invece che, nel Belpaese, gli unici che chiamano lo stadio con il nome ufficiale sono i telecronisti della Rai (e forse quelli di Mediaset). Non ho mai – dico mai – sentito un milanese, interista o milanista che fosse, dire “vado al Meazza a vedere la partita”. Il “Meazza” non esiste, esiste “San Siro”, punto.
Non so nemmeno come vanno le cose in Austria, al riguardo. Ma se gli abitanti della Stiria assomigliano a noi un po’ più di quanto non assomiglino agli americani, allora non si staranno strappando i capelli alla notizia che Arnold Schwarzenegger ha ritirato il diritto a utilizzare il suo nome per battezzare lo stadio di Graz.
Corriere.it
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