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La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla.
(Gabriel Garcia Marquez)

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    19/12/2018

    In famiglia

    Filed under: — JE6 @ 09:36

    E così finisce che, per un caso del destino, in due giorni ti trovi a passare del tempo – tanto, poco: non conta così tanto – prima in una casa famiglia che ospita bambini che il Tribunale dei minori ha temporaneamente tolto alle loro famiglie e poi in un centro Sprar, uno di quelli che ospita e cerca di introdurre nella cosiddetta vita normale ragazzi in attesa dell’asilo politico. Non hanno molto in comune – età, provenienza, lingua, colore della pelle – se non una cosa, e però fondamentale: sono lontani, per chissà quanto, così tanto che nessuno vuole pensarci davvero, dalla loro casa e dalla loro famiglia. I bambini da quella casa e da quella famiglia sono stati tolti, nella speranza di toglierli da violenze e abusi e trovargli un futuro migliore di quello che sembrava disegnato. I ragazzi da quella casa e quella famiglia se ne sono andati, nella speranza di togliersi da povertà, guerre, persecuzioni e trovarsi un futuro migliore di quello che sembrava disegnato. E ora sono lì, a dieci o diecimila chilometri da dove sono nati e cresciuti, a cercare per quanto possono di fare una vita normale. Normale: né lavori da biglietti da visita pieni di parole inglesi né viaggi scintillanti né telefoni che sfamerebbero un intero villaggio, solo una casa con l’albero e le sue palline, una coperta colorata, un divano magari un po’ sfondato ma comodo, e qualcuno che ti sta vicino per davvero, che sei contento di vedere e salutare quando rientri dopo la scuola o il lavoro o la ricerca dello stesso, qualcuno che ti vuole bene, fosse anche per lavoro. Quello che vogliamo tutti, quello che dovremmo volere tutti non solo per noi stessi. Quello che abbiamo nascosto in bella vista sotto gli occhi e buttiamo via in nome di quanto è bello essere brutte persone che devono sopportare famiglie disfunzionali e falsi amici. Sono lì, e tu per un caso del destino (anche se poi i casi te li devi un po’ andare a cercare, te li devi costruire, te li devi forgiare) stai in mezzo a loro, loro che ti ringraziano per esserci e tu che non trovi le parole per dire che no, guarda, davvero, grazie a te, grazie a voi.

    21/12/2017

    Farsene un’idea

    Filed under: — JE6 @ 12:15

    Ho letto tanto quest’anno. E’ andata così, non ho fatto altre cose – guardare film, fare bricolage, parlare un po’ di più con la famiglia – ma ho fatto questa, ogni giorno. Quando leggi tanto trovi anche tante frasi memorabili; naturalmente non me le ricordo, ma le tengo segnate. Mi è rimasta in testa l’ultima: in quanto ultima, ma anche perché mi sembra che riassuma bene il perché leggo tanto. L’ha scritta Annie Dillard in un libro del 1982 che vale il tempo investito già per il titolo: “Teaching a Stone to Talk: Expeditions and Encounters“. La frase è questa, nella traduzione de “Il Post”: «Lo scopo di andare in un posto come il rio Napo in Ecuador non è vedere uno spettacolo straordinario. È semplicemente vedere che cosa c’è. Siamo su questo pianeta una volta sola, e tanto vale farsene un’idea». Credo che fosse Pavese a dire che alla fine il motivo fondamentale di leggere e scrivere e parlare con la gente è quello di capire come stiamo al mondo. E al mondo ci stiamo in tanti modi, ci stiamo bene e male, con dignità, con paura, con boria, in silenzio, urlando, andate avanti come credete, ci siamo capiti. Alla fine lo scopo è quello di vedere cosa c’è, di farsene un’idea; alla fine serve tutto, una figlia di Elizabeth Strout e un broker di Michael Lewis e un principe di William Shakespeare e un fisico di Carlo Rovelli; alla fine siamo su questo pianeta una volta sola, e tanto vale farsene un’idea.

    21/08/2017

    Il giorno dopo Ferragosto

    Filed under: — JE6 @ 16:16

    Il giorno dopo Ferragosto il parco ha la stessa aria sonnolenta della città, sfiancata da settimane infinite di caldo umido. Ma qualcuno arriva, chi a piedi e chi in bicicletta, qualcuno si stende sotto un albero e qualcun altro apre una piccola sdraio. Due ragazzi si passano il pallone senza nemmeno guardare i pali della porta. Di quei pochi che sono usciti di casa e ora stanno qui tra la pista di galoppo e il cimitero di guerra la gran parte hanno gli occhi socchiusi e l’espressione di chi si sta godendo il momento senza pensare a chi sta in spiaggia, senza invidia per chi cammina verso un rifugio di montagna, senza tristezza per non essere a New York o in un’altra metropoli di cui poter parlare in ufficio, e forse, chissà, è vero che basta poco per stare bene, forse, chissà, aveva ragione il vecchio Kurt che diceva “quando siete felici, fateci caso”.

    19/05/2017

    Accumuli

    Filed under: — JE6 @ 15:24

    Alla fine l’età è in gran parte una questione di accumulo. Non solo, ma in gran parte. E così arrivi a un punto nel quale tante cose si ripetono, ma soprattutto tante cose si riprendono, si congiungono. Lì per lì sembra un caso e invece no. Quella cosa lì l’ha scritta Carver. Però, aspetta, un po’ diversa ma al tempo stesso molto simile l’ha scritta Foster Wallace. E pure Pascoli, e anche Garcìa Marquez. Uhm, non è che mi sto confondendo? No, è proprio così. Ma se avessi vent’anni non lo saprei. Non avrei letto abbastanza, viaggiato abbastanza, ascoltato abbastanza. Eccetera. Poi certo, serve un po’ di memoria per collegare le cose tra loro, ma avere la memoria e non avere i ricordi, ecco, ci siamo capiti.

    03/05/2017

    Da fuori, standoci dentro

    Filed under: — JE6 @ 15:32

    Teniamo in casa per una decina di giorni una sedicenne di Francoforte. Programmi di scambio, quelle cose lì. Ovviamente ti prepari: il letto, un pezzo di armadio, il bagno, i biglietti giornalieri, l’adeguamento degli orari delle sveglie e tutto il resto. Fai la vita normale, che è uno degli obiettivi di questi periodi in casa altrui (una cosa tipo a day in the life), sapendo che non può esserlo davvero, che è tutto un po’ fuori sincrono, che è tutto un po’ meno vero, che è tutto plasmato come un pezzo di Das perché una ragazza torni a casa sua e abbia un buon ricordo di quella gente che l’ha ospitata. E poi guardi la tua vita con altri occhi, che non sono né i tuoi né i suoi. Dove la tua vita sta per un sacco di piccoli insignificanti dettagli – come tagli il pane, la luce dei lampioni della tua strada di periferia, quella piccola ragnatela in un angolo del pianerottolo che la signora peruviana non ha mai tolto e tu non hai mai trovato un motivo sufficiente per farlo a tua volta, il modo in cui ti metti sul divano a guardare la televisione, la temperatura che tieni in casa, la chincaglieria che sta sulla scrivania, l’accappatoio appeso in bagno. E’ come vederla da fuori standoci dentro, con un’attenzione a dettagli che ogni giorno stanno nascosti in bella vista sotto gli occhi, e che a un certo punto ti auguri che tornino al loro posto, così evidenti da non farci caso, come ogni giorno normale.

    13/01/2017

    Come diventare buoni

    Filed under: — JE6 @ 12:20

    Ho letto un articolo qualche giorno fa. Parlava di Obama, dei suoi ultimi giorni da presidente, della sua legacy – quello che lascerà. Fra le molte diceva una cosa che mi ha fatto pensare parecchio. Diceva che Obama ha una fiducia incrollabile e vera nella bontà del suo paese: senza essere cieco e ingenuo, senza dimenticare il Vietnam e il KKK e Columbine e Trump, ma crede che l’America sia buona (uso quest’aggettivo andando a memoria, forse era un’altra cosa ma il senso era proprio questo). Una bontà fatta di molti aspetti – la generosità, lo spirito di sacrificio, una certa forma di allegria, la fiducia in sé come paese – che a sua volta è uno dei molti componenti che hanno reso grande quel paese. Diceva, quell’articolo, una cosa più o meno come “Obama crede negli americani, e quindi nell’America, e ci crede davvero”. E poi diceva un’altra cosa, che a sua volta suonava più o meno come “e infatti hanno votato Trump, che è l’incarnazione di tutto o quasi tutto il contrario di quel buono che Obama vede e sente intorno a sé”. E li ho pensato a quel pezzo famoso di Roth, di “Pastorale americana”, quello che dice che vivere è capire male la gente, e poi capirla male ancora e ancora. Ho pensato che Roth ha probabilmente ragione, che capire male la gente è quello che ci succede ogni giorno; e ho pensato che se il giorno dopo la capiamo male ancora non è perché siamo stupidi: è perché è uno dei modi che ci siamo scelti per vivere meglio, o meno peggio; è scommettere che siamo meglio di quello che praticamente sempre diamo prova di essere, scommettere e perdere, scommettere e perdere, fino al giorno in cui non troviamo un esempio contrario, uno qualsiasi, e allora vinciamo, e come un elastico accumuliamo abbastanza energia da andare avanti. Succede nella vita privata, ma succede anche nella vita sociale (ogni tanto penso alla sera in cui ci trovammo a migliaia in piazza Duomo quando venne eletto sindaco Pisapia: negli anni a venire avremmo alternato tutti delusioni a soddisfazioni, ma quella sera ci sentimmo contenti, ci sentimmo buoni). Succede, ogni tanto, che si perde questa fiducia; e ogni tanto, anche se più raramente di quanto vorremmo, succede che proviamo la sensazione di non essere così male, e che in fondo sì, possiamo diventare buoni, un po’ più buoni.

    26/10/2016

    Come se fosse cosa viva

    Filed under: — JE6 @ 13:21

    E’ in quel momento lì, quando mi inginocchio seguendo il gesto della mano lunga e bianca che me li sta indicando, è nel momento in cui all’altezza degli occhi trovo i dorsi di un’edizione antichissima dell’Encyclopedie, proprio quella, è in quel momento lì che mi ritrovo, dopo alcuni secondi di qualcosa che non saprei definire bene – emozione, smarrimento – a provare la sensazione di guardare uno dei molti e al tempo stesso pochissimi punti dai quali vengo, come se avessi di fronte non un libro ma una persona, la madre della madre della madre della madre di mia madre appoggiata qui, in questa magnifica scatola di legno intarsiata che contiene la storia del mondo, una biblioteca piena di libri stampati alla fine del Quattrocento che pare siano usciti adesso dalla macchina da stampa tanto sono nitidi, di tomi del Cinquecento nei quali l’America del Nord era chiamata Terra Ignota, di trattati scientifici del Seicento accuratissimi e aggraziati come dipinti di Michelangelo, un luogo curato come un figlio – quella mano lunga e bianca appartiene a un uomo alto con la barba bianca e lunga, un monaco in jeans e mocassini che conosce questi libri e le loro storie e le storie di chi li ha scritti e di chi li ha stampati, li conosce con una profondità e un amore non ostentati, li cura con l’attenzione che si dedica solo alle cose (alle persone) che si amano. Io sto lì, noi stiamo lì a guardare e ascoltare e fare domande come i nipoti con i nonni anche se abbiamo la stessa età dell’uomo che ci parla, vorremmo dirgli di non fermarsi, di aprirci un altro scrigno, e quando usciamo gli stringiamo la mano lunga e bianca e gli diciamo grazie e quando ci ritroviamo fuori nell’aria fredda della montagna di ottobre ci guardiamo in faccia e per un po’ non sappiamo cosa dirci.

    06/10/2016

    Un antidoto contro la solitudine

    Filed under: — JE6 @ 13:39

    La cosa più difficile è sempre stata bussare alla porta della stanza, fare due passi, dire buongiorno e presentarsi. Sempre. Per qualche mese sono andato insieme ad altre persone in un ospedale milanese a chiedere ai malati se avevano voglia di starci a sentire leggere alcune pagine di un libro, e ogni volta la cosa più difficile è stata quella. Ogni volta il pensiero era “ma questa gente non avrebbe diritto di starsene in pace, perché sono qui, perché sto invadendo questo microscopico perimetro che delimita il loro letto”. Sono state più le camere nelle quali non sono entrato che quelle nelle quali ho messo piede: perché la persona aveva gli occhi chiusi, perché c’era una tapparella a metà, perché c’era una persona seduta vicino al letto, perché c’era una trasmissione del sabato pomeriggio che faceva da sottofondo ai minuti che passano da un pasto a una pastiglia. Ma in qualcuna sì, sono entrato, mi sono presentato, ho chiesto se volevano che, ho detto quali libri avevo con me. Ho ricevuto dei sì poco convinti – la maggior parte, quasi di cortesia, come se fossero loro a fare un piacere a me: e in effetti spesso avrei scoperto che era proprio così – e qualcuno più caldo. Ho ricevuto un sacco di no, come era ovvio e pure giusto che fosse. Ho letto “La chiave a stella” a una magnifica ottantenne napoletana professoressa di lettere e il finale de “L’amore ai tempi del colera” a una casalinga di Rozzano, e altre cose ancora ad altre persone ancora, e ogni volta alla fine mi sono ritrovato sudato fradicio come se avessi scalato una montagna. Ho visto persone chiudere gli occhi e prendere un respiro lento e regolare (e i nostri istruttori ci dicevano che era una cosa buona e bella, che era come far addormentare un bambino). Più di una volta mi sono fermato dopo una manciata di righe, più di una volta mi sono fermato un’altra mezz’ora a chiacchierare e soprattutto a farmi raccontare storie, il signore che non vedeva la figlia e i nipoti da mesi perché sa, sono occupati, hanno tanto da fare e si capiva che ci voleva credere davvero, la maestra in pensione che aveva inserito un metodo di insegnamento in una scuola elementare negli anni Cinquanta, la soprano caduta in disgrazia, il disoccupato in stato di depressione, la moglie che suggeriva al marito allettato le parole che il leggero ictus non gli faceva più venire alla bocca. Ho ricevuto molto, molto più di quanto ho  dato, e ho toccato con mano quanto David Foster Wallace avesse ragione a dire che un libro è un antidoto contro la solitudine – lo è quando lo apri e ti isoli dal mondo che ti sta intorno per entrare in un altro lontano pieno di gente da conoscere, lo è quando qualcuno lo apre per te, lo è in un sacco di modi imprevisti e sconosciuti fino a quando li tocchi con mano. Non funziona sempre, non risolve tutto, ma come sarebbe la vita senza mi viene freddo solo a provare a immaginarlo.

    31/05/2016

    Ragazzo fortunato

    Filed under: — JE6 @ 09:13

    Khalid si alza dalla sua poltrona, fa una decina di passi, guarda quelle centinaia di persone che per i prossimi due o tre minuti lo ascolteranno parlare. Tira fuori dalla tasca della giacca due fogli piegati a metà, chiede scusa per il suo italiano e poi racconta. Racconta le cose che sappiamo, la guerra civile, l’analfabetismo, la morte, le fughe. Poi a un certo punto si ferma, fa una pausa, alza la testa dai fogli, mette i suoi due occhi dentro i seicento che lo stanno guardando, fa un sorriso timido e dice “io penso di essere fortunato a essere qui”.

    04/05/2016

    Cose rimaste, dopo

    Filed under: — JE6 @ 17:20

    Cose rimaste dopo essermi asciugato le copiose lacrime di commozione per la vittoria del Leicester (dev’essere l’età, ormai mi sciolgo per quasi qualsiasi cosa; quasi, eh):

    Se si chiamano eccezioni, un motivo ci sarà;

    Tutto sommato, avere alle spalle un multimiliardario una mano te la dà: i soldi devi saperli spendere bene, s’intende, ma averli, ecco, come dire;

    O sei un fan senza speranza o sei un campione di understatement british fino al midollo; se però il destino ti rende entrambe le cose allora ti chiami Mark Selby, vinci il mondiale di snooker nello stesso momento in cui la squadra della tua città conquista l’unico titolo dei suoi 132 anni di vita nonché uno dei meno pronosticati della storia e le foto che rimarranno della tua festa ti ritrarranno mentre nascondi la coppa del tuo trionfo con la bandiera di quella squadra lì;

    Vinci e tutto ti sarà perdonato, anche il fare la cosa più stereotipicatamente (?) italiana che si possa immaginare come mollare baracca e burattini per andare a trovare la mamma (“che tenerezza”, “che gentiluomo”, “che superiore distacco dalle umane cose”);

    Pure se si chiamano favole, un motivo ci sarà.