< City Lights. Kerouac Street, San Francisco.
Siediti e leggi un libro

     

Home
Dichiarazione d'intenti
La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla.
(Gabriel Garcia Marquez)

Talk to me: e-mail

  • Blogroll

  • Download


    "Greetings from"

    NEW!
    Scarica "My Own Private Milano"


    "On The Blog"

    "5 birilli"

    "Post sotto l'albero 2003"

    "Post sotto l'albero 2004"

    "Post sotto l'albero 2005"

    "Post sotto l'albero 2006"

    "Post sotto l'albero 2007"

    "Post sotto l'albero 2008"

    "Post sotto l'albero 2009"

    "Post sotto l'albero 2010"


    scarica Acrobat Reader

    NEW: versioni ebook e mobile!
    Scarica "Post sotto l'albero 2009 versione epub"

    Scarica "Post sotto l'albero 2009 versione mobi"

    Scarica "Post sotto l'albero 2010 versione epub"

    Scarica "Post sotto l'albero 2010 versione mobi"

    Un po' di Copyright Creative Commons License
    Scritti sotto tutela dalla Creative Commons License.

  • Archives:
  • Ultimi Post

  • Lungo il fronte
  • Dentro la circonvallazione
  • Dito, luna
  • “E non dire di quelli che sono morti sulla via di Allah: ‘Sono morti’. No, sono vivi ma tu non li senti”
  • Ieri
  • “Aspetto”
  • A fianco
  • Ventidue, e sentirli tutti
  • Posta inviata
  • Per gemmazione
  • November 2025
    M T W T F S S
     12
    3456789
    10111213141516
    17181920212223
    24252627282930

     

    Powered by

  • Meta:
  • concept by
    luca-vs-webdesign

     

    30/01/2009

    Il matto che urla

    Filed under: — JE6 @ 22:52

    Il matto che urla ha ormai più di quarant’anni. Lo so, perchè lo conosco. Siamo praticamente cresciuti insieme, stesso palazzo, stesso cortile, stesso gruppo di amici che giocava a pallone e correva in bicicletta e andava a buttar fiammiferi nell’Olona che scorreva a cielo aperto in piena città. Per noi era solo uno del gruppo, quello strambo, quello che non c’era verso di vincere una gara di corsa perchè lui era il vento e noi le pietre, quello che palla lunga e vai vai vai e scardinava le mani dei portieri avversari con il suo destro incapace e bestiale. Con il passare del tempo è diventato più solo, cupo e cattivo, mentre noi lasciavamo il quartiere per andare al liceo, e all’università, e al lavoro; lui, invece, girava ogni giorno per le stesse strade con il passo pesante degli anfibi neri e sporchi, lo stereo sulla spalla, la musica sparata, parlando da solo, gridando forzainter, lanciando minacce innocue. E’ triste vedere quello che per qualche anno è stato un tuo amico, un compagno di tempi e giochi diventare lo scemo del villaggio che però non si ricorda nemmeno più di te, che ti passa vicino mentre stai uscendo dal centro commerciale e ti abbaia chicazzoseitispaccolafaccia.
    Ieri mattina ero riuscito a sedermi, una cosa che alle otto del mattino non capita praticamente mai da quando la fermata dove prendo la metropolitana non è più il capolinea. Il posto vicino all’entrata, sul lato destro della porta di ingresso al vagone. Ho aperto il giornale, come al solito ho iniziato a leggerlo dal fondo – meteo, spettacoli, sport, di politica e economia avevo già sentito abbastanza il giorno prima. Poi è salito lui, il mio vecchio compagno di cortile trasformatosi nel matto che urla, giubbotto, jeans stretti ed i soliti anfibi, uno zainetto sulle spalle come uno scolaro e chissà cosa ci teneva dentro. Ha iniziato il suo soliloquio a voce altissima, le labbra umide di saliva, lo sguardo che passava da un passeggero ad un altro e ognuno a infossare ancora di più gli occhi nelle pagine di un libro, a girare la testa da un’altra parte, ad alzare il volume dell’iPod, tutto pur di ignorarlo, come si fa con i mendicanti o i violinisti che salgono e attraversano il vagone nel minuto di tempo che divide una fermata da quella successiva chiedendoti una moneta, grazie signore. Poi il matto che urla ha guardato me, che come tutti gli altri facevo finta di niente; lui non sapeva più chi ero io, ma io sapevo benissimo chi era lui, non c’era nessun altro su quel dannato vagone che avesse passato con lui tanto tempo quanto avevo fatto io, non c’era nessuno che avesse provato a sgonfiargli le gomme della bicicletta per poterlo battere nella gara con partenza da fermo, non c’era nessuno che avesse perso il respiro per essere stato colpito da una sua pallonata in pieno stomaco, non c’era nessuno che avesse conosciuto lo sguardo torvo di sua madre. Ho capito che per lui ero uno come tutti gli altri, e ciò nonostante mi sono alzato, ho lasciato il mio inaspettato posto a sedere, ho preferito scendere ed aspettare il prossimo treno pur di non sentirlo berciare per altri venti minuti. Quando sono sceso dal vagone ho aspettato un momento prima di voltarmi; ho visto le porte richiudersi, ho guardato il matto che continuava a urlare, ho riaperto il giornale per vedere cosa avrebbero dato in televisione, e il treno è ripartito.

    25/01/2009

    Il lettore

    Filed under: — JE6 @ 11:46

    Sono quasi le undici di sera quando alla fermata di Loreto salgo sul vagone della linea rossa in direzione Rho-Fiera. Mi siedo, con gli occhi appannati da troppe ore passate davanti al terminale di un computer telefonando a gente che non ha i soldi per pagare le rate della macchina. C’è poca gente, tre nordafricani silenziosi, un paio di uomini in giacca e cravatta che si riguardano gli appunti della giornata, due adolescenti che si baciano. E il lettore. E’ seduto proprio di fronte a me. Non saprei attribuirgli un’età, forse cinquantacinque, forse sessant’anni. Veste un completo a quadri stazzonato, un vecchio Principe di Galles che ha conosciuto tempi migliori, quando forse anche il suo padrone era migliore di ciò che mostra essere oggi. Le  scarpe non sono sporche, ma sembrano vinte dal disinteresse, sformate fin dal momento in cui sono state comprate su una bancarella di un ambulante in un sabato di febbraio di chissà quanto tempo fa. La camicia e la cravatta lo fanno sembrare il fratello grasso del Tenente Colombo, i capelli unti, radi e riportati da un lato all’altro della testa mi ricordano un telecronista di quando ero bambino – o un personaggio da sottobosco criminale di un telefilm americano di serie B. Legge un giornale porno, appoggiato sulla gamba destra accavallata sopra quella sinistra. Lo guarda con attenzione meticolosa, con attenta lentezza, come se non gli servisse per eccitarsi o per divertirsi con i testi surreali pagati tre euro a cartella. Osserva un pompino a pagina intera, sfoglia e studia il più classico degli stalloni neri che fa gridare la più classica delle ragazzine di buona famiglia, passa alle due amiche che si fanno montare dai meccanici di un’officina, senza mai cambiare l’espressione del viso, senza muovere un sopracciglio, senza dare un segno di vita. Non si cura di chi gli sta intorno, indifferente a quella sua silenziosa violazione delle norme non scritte della buona educazione – se vuoi vedere due che scopano fallo a casa tua, dove non ti vede nessuno, non qui, una leccata a Cordusio, una doppia penetrazione a Cairoli, una sodomia a Cadorna, in mezzo a gente come te. Alla fermata di Lotto richiude la rivista con un gesto tranquillo, quasi burocratico, come se fosse in ufficio e avesse terminato una pratica. Prende una di quelle borsette di tela, finta ventiquattrore regalata da chissà quale azienda farmaceutica a chissà quale congresso in chissà quale anno, una di quelle nere con i bordi di un verde improbabile e sporco, la apre, vi ripone la sua lettura, si alza in tutti i suoi centosessantatre grassi centimetri ed esce. Mi chiedo fugacemente se il lettore non sia il più onesto tra tutti noi, poi conto le fermate che mi mancano per arrivare a casa, per provare a dormire.

    23/01/2009

    L’impiegato

    Filed under: — JE6 @ 13:50

    L’impiegato sale sempre alla stessa ora. Entra nello stesso vagone, dalla stessa porta, ogni mattina che Dio manda in terra. Lavora in centro, nel centro storico, nobile e bello di Milano, in quella manciata di vie nelle quali ti senti un po’ a Vienna e un po’ a Boston. Ma vive in periferia, e della periferia ha anche l’aspetto fisico: elegante ma non abbastanza, almeno non per essere – o provare, o fingere di essere – alla pari con quei gran signori che percorrono i corridoi ovattati della direzione generale della grande banca per la quale lavora. Non sembra che gliene importi molto: mi è capitato di incontrarlo “fuori” – fuori dall’orario lavorativo, fuori dalla metropolitana, alla luce grigia dell’inverno padano – e indossava, con quello che sembrava piacere fisico, una larga tuta sportiva, e per quei trenta secondi durante i quali l’ho seguito con lo sguardo, senza che lui se ne rendesse conto, ho pensato che quello era veramente lui, nel modo più intimo e reale che potessi immaginare. L’impiegato conosce tante persone, impiegati come lui, e casalinghe, e pensionati, e studenti, e con ognuno scambia due parole, spesso accompagnate da una pacca sulla spalla: lo fa mentre scende le scale della stazione della metropolitana, mentre aspetta il treno, mentre percorre la quindicina di fermate che lo separano dal suo ufficio. E’ cordiale di natura, lo osservo sorridere, commentare le partite del giorno prima o l’uscita di un nuovo modello familiare o la mancanza di neve sulle Alpi; e tutti gli danno retta. Sembra il secondo cugino di chiunque, per quel modo leggero, innocuo e alla fine superficiale con cui tratta tutti e con cui tutti lo trattano. Non so se ha una famiglia, una moglie, dei figli. Non porta la fede al dito, ma si sa che questo non vuol dire nulla. Me lo immagino vivere da solo, oppure insieme ad una madre anziana, zitello benestante, stimato ma non desiderato. Quando, raramente, gli capita di viaggiare da solo apre la Gazzetta dello Sport, e io lo guardo mentre la legge con un’espressione che è spenta e triste al tempo stesso, come se in quel momento fosse tornato nella sua camera da letto, nella sua stanza da bagno, dove ha uno specchio e si vede per quello che è – e per quello che lo hanno fatto diventare.

    18/01/2009

    Il direttore

    Filed under: — JE6 @ 18:27

    Il direttore non suda mai. Né d’inverno, quando il cappotto che lo protegge dal gelo umido di Milano diventa un sarcofago nero nell’aria appiccicosa del vagone della metropolitana, né d’estate quando le vecchie scatole di metallo sferragliano tra Rho e Sesto Marelli come carri bestiame nel Tennessee dell’Ottocento. Il direttore non si siede mai. Entra nel vagone, lo attraversa e trova il suo posto sul lato opposto a quello dell’entrata, dove resta in piedi, dritto come un fuso, fino al momento della discesa. Ogni volta lo guardo con un misto di stupore, ammirazione e invidia. E’ perfetto, ma non lo ostenta: le scarpe lucide ma non a specchio, le pieghe dritte della stiratura, gli abbinamenti opportuni dei colori, la rasatura quotidiana, i capelli della giusta lunghezza, le unghie ben curate. Alle nove del mattino il vagone scoppia di passeggeri, l’uno accatastato sull’altro, ma intorno a lui è come se ci fosse una sottilissima campana di vetro che lo separa dal resto degli umani, quasi che questi non gli si volessero avvicinare troppo per il timore di sporcarlo, di stropicciarlo. Ha sempre con sè un paio di quotidiani e altrettante riviste, ma ogni volta apre la ventiquattrore di cuoio nero con un gesto fluido e sicuro e ne estrae un libro – Roth, Borges, Calvino, Yourcenar. Quando il vagone si ferma per aprire le porte e far salire e scendere le migliaia di persone affannate che questa città vomita ogni due minuti lui alza la testa e si guarda intorno, e si capisce che lo fa con interesse, con partecipazione, come se fosse davvero uno di noi comuni mortali. Riesco a vederlo nel suo ufficio; non dev’essere uno che alza la voce, ma sono certo che lo ascoltano tutti, come si fa con coloro dei quali ci si fida, che hanno autorità perchè sono autorevoli. Chiede per favore, anche se non ne ha bisogno, discute ma non litiga, convince ma non ordina. Cerco di immaginare quale può essere la crepa nella sua vita, perché mi rifiuto di credere che non ne abbia una – la moglie che lo ha lasciato con un biglietto sul tavolo della cucina, la multinazionale dell’editoria per la quale lavora che chiude la filiale italiana, i sintomi precoci di una malattia incurabile, l’innamoramento impossibile per una segretaria di trent’anni, qualsiasi cosa. Ieri mattina, mentre il treno entrava nella stazione di Cordusio e lui si è avvicinato all’uscita chiedendo gentilmente ad una badante moldava “Scusi, scende?”, ho avuto la tentazione di alzarmi, accostarlo e dirgli “Andrà tutto bene”. Non so perché, ma sono certo che avrebbe capito, e che mi avrebbe detto di sì.