|
|
27/11/2023
Melii – Ma è proprio qui la ragione della nostra fiducia! Noi confidiamo nel loro senso dell’utile: essi non vorranno tradire i Melii, loro coloni, e perdere, così, la fiducia dei Greci e fare un regalo ai nemici. Ateniesi – E non pensate che l’utile si persegue evitando i pericoli, mentre il giusto e il nobile correndo dei rischi?
Tucidide, “La guerra del Peloponneso – Dialogo tra Ateniesi e Melii”
Ho passato poco meno di quattro giorni a Trieste, a dare una mano agli operatori del Centro diurno di accoglienza per rifugiati e richiedenti asilo (e, già che ci sono, anche a una manciata di dropout indigeni). Non so dire se è un’esperienza che consiglierei a chiunque: ma a molti, certo per motivi diversi, sì. Comunque sia: accoglienza, integrazione, flussi migratori, rotta balcanica, sono argomenti dei quali mi interesso da anni (e quando posso cerco di fare qualcosa in prima persona) e ormai sono arrivato a un paio di conclusioni che butto qui come appunto personale. La prima è che, in modo forse solo apparentemente paradossale, la gran parte delle attività che vanno sotto l’ombrello di soccorso, accoglienza e integrazione finiscono per rafforzare l’enorme e perverso meccanismo che ne genera il bisogno e le rende addirittura indispensabili. E’ come se ogni microscopica pezza che qualcuno prova a mettere – un paio di scarpe a chi è rimasto scalzo dopo un viaggio a piedi di seimila chilometri, un pasto caldo a chi non ha in tasca nemmeno cinquanta centesimi per una barretta, l’inoltro di un documento che forse (forse) permetterà a qualcuno di avere (temporanamente) un tetto sopra la testa – permettesse a qualcun altro di continuare a lavorare più o meno indisturbato per perpetuare e rafforzare un sistema che genera sofferenza, povertà, sfruttamento e morte spargendole a piene mani lungo percorsi che coprono mezzo mondo. Si può fare diversamente? Si può pensare di scardinare il sistema, di inceppare il meccanismo sottraendoglisi? Non lo so, se lo sapessi farei altro nella vita. Ma la sensazione di essere complice, a volte involontario e a volte consapevole seppure renitente, non riesco a tirarmela via dalla testa e dalle mani. La seconda è che il solo modo di invertire la rotta seguita da quella che una volta si chiamava la pubblica opinione è cambiare completamente quello che nel mio mestiere si chiama il benefit, ciò che si riceve in cambio della propria azione – sia questa una donazione o un voto alle elezioni. Ho perso la speranza che sia possibile convincere qualcuno che convinto non lo sia già in nome dei valori, facendo leva sui concetti di azione buona e di azione giusta: se mai nella nostra società c’è stato un terreno comune sul quale potersi incontrare per motivi etici, quel terreno oggi non c’è più – o quanto meno io non riesco a vederlo. Parliamo di interesse, parliamo di soldi: non devi salvare un disgraziato dall’annegamento nel Mediterraneo o dall’assideramento in mezzo alle colline bosniache per pietà verso un essere umano, non devi dare un euro al governo turco per il mantenimento dei campi profughi o dei quartieri-ghetto dove si ammassano centinaia di migliaia di uomini e donne e bambini perché “è sbagliato”: quel che devi fare è ridurre al minimo quel lunghissimo processo fatto di guerre, fughe e dolori perché ti conviene, perché nel tuo paese mancano gli infermieri e gli operai, gli autisti e i panettieri e chiunque generi reddito legale in grado di generare contributi pensionistici dei quali godrai tu domani, perché l’euro che ti esce di tasca oggi ti ritornerà moltiplicato domani: e per l’eterogenesi dei fini, il tuo perseguire l’interesse personale produrrà salvezza, se non giustizia. Forse bisogna imparare ad accontentarsi, e al tempo stesso a circuire i nostri avversari.
03/11/2023
Ma: e se del vado/non vado di un (bravo) disegnatore a una fiera ci interessasse il giusto, e cioè appena più di nulla?
26/10/2023
Dire che ho una particolare fiducia nel futuro sarebbe una notevole sopravvalutazione della realtà. E al tempo stesso, dato che invecchio, inesorabilmente come tutti, futuro è una parola che ha tutto il significato del mondo – e nessuno, perché i giorni davanti sono sempre meno.
Non so se è per quello che l’unica cosa che provo a fare – perché penso che sia l’unica che ha senso – è proprio quella: fare, fare qualcosa, anche piccola, usare l’unica vera risorsa che ho – il mio tempo, che si porta dietro il mio corpo: non è mai il contrario – per fare quella che mia nonna e mia mamma avrebbero chiamato una buona azione. Sporcarmi le mani, perché sono uno di quelli che ha la fortuna di potersele poi lavare.
01/09/2023
Qualche sera fa ho sentito Filippo Tortu dire “Il mio amico Mario una volta mi ha detto che i galluresi amano vivere qualcosa di bello per averne nostalgia nel futuro”, e anche se i miei nonni avrebbero fatto fatica a considerare i tempiesi sardi come e quanto loro l’ho trovata una descrizione talmente bella da non aver bisogno di essere vera (e, tutto sommato, comunque lo è).
20/07/2023
Sono seduto sul divano. Sto leggendo un libro nel quale si citano ossessivamente alcune vie di Sarajevo. Di una di queste credo, dalla descrizione, di aver capito in quale quartiere si trova; la cerco, e quando penso di averla individuata allargo un po’ lo zoom capendo che con ogni probabilità si tratta della via che l’uomo con il quale passai un pomeriggio di agosto in giro per luoghi di guerra mi indicò con un’urgenza speciale. La vedi, mi disse, vedi quelle due torri. Sì, gli risposi, credo di aver capito di quali palazzi parli. Abitavo nel primo, continuò. E un giorno dovetti andare insieme a mio fratello a comprare il pane. Sapevamo che c’era un cecchino appostato, ma non potevamo continuare a restare fermi a casa senza nulla da mangiare, così scendemmo e poi ci lanciammo di corsa verso il forno e immediatamente sentimmo gli spari e il rumore dei proiettili che ci inseguivano e rompevano l’asfalto a una spanna dai nostri piedi. Sembrava la scena di un cartone animato, disse. Poi fece una pausa, e concluse: forse voleva solo spaventare i nostri genitori che ci guardavano dalla finestra, altrimenti ci avrebbe ammazzati. Erano bravi, i cecchini serbi. Ritorno sulla pagina e realizzo che l’autore ha la stessa età dell’uomo con il quale passai un pomeriggio di agosto in giro per luoghi di guerra, e che abitava letteralmente a due passi da casa sua. Probabilmente frequentavano la stessa scuola, compravano negli stessi negozi, cercavano di farsi notare dalle stesse ragazze. Io, l’uomo con il quale passai un pomeriggio di agosto in giro per luoghi di guerra, l’autore. Due gradi di separazione.
Mi capita spesso di leggere tenendo a portata di mano Google Maps. Villaggi, vie, laghi, strade, province. Mi piace collocare nel mondo i posti che non conosco, e soprattutto ritrovare quelli nei quali sono stato, e stupirmi di questo. E così ho una doppia storia delle mie visite, dei miei spostamenti: quella reale creata dal lavoro, dalle vacanze, dalle cose di tutti i giorni (o quasi: ma questa è un’altra faccenda); e quella dei libri. Che si mescolano, si sovrappongono e a volte diventano una cosa sola, e chissà che non lo sia veramente.
13/06/2023
Premo l’icona rossa che chiude la telefonata. Ho passato l’ultimo quarto d’ora a scambiare informazioni con il coordinatore di una missione umanitaria che sta per partire per l’Ucraina; gli ho raccontato della nuova procedura di uscita dalla Polonia, lui mi ha parlato dei programmi futuri – il ritorno a Kherson, la ricostruzione di un ospedale in una provincia limitrofa del Donbass, posti dove la guerra prende una consistenza del tutto diversa da quella delle regioni dell’ovest ucraino che abbiamo attraversato da nord a sud, luoghi dove ci sono i campi minati e cadono i missili e tutto è crivellato, devastato, sofferente. Di tutto questo non abbiamo visto nulla, perché nulla c’è da vedere: la guerra delle armi a Leopoli e sui Carpazi non è arrivata, se non nella forma sostanzialmente nascosta ai nostri occhi poco allenati e ai nostri piedi non autorizzati delle migliaia di feriti e mutilati che affollano gli ospedali non disponibili al fronte e delle molte altre migliaia di sfollati interni che all’ovest cercano sicurezza, casa e forse anche lavoro, tutte cose che là da dove sono scappati non sono più disponibili. Abbiamo visto – e alcuni di noi rivisto – una città che nel suo centro è più allegra e viva di molte delle nostre, dalla quale sono spariti la metà dei grandi generatori elettrici che qualche mese fa permettevano l’accensione delle luci e l’avvio delle macchine quando la stragegia russa era nella fase del “vi facciamo stare al freddo e al gelo”, un posto nel quale i pochi segni di guerra sono i sacchi di sabbia a protezione delle finestre dei seminterrati dei palazzi di una certa importanza e i blocchi di jersey all’ingresso di alcuni grandi viali di accesso al centro, cose che con un minimo di disattenzione potrebbero persino passare inosservate; nel nostro giorno e mezzo in Ucraina il solo brivido provato è stato l’alert di allarme aereo con richiesta di immediato riparo nei rifugi ricevuto mentre guidavamo in cima ai Carpazi, allarme rientrato dopo diciassette minuti – probabilmente quelli sufficienti alla contraerea di eliminare il pericolo. Mi sorprendo – e non è la prima volta – a fare i conti con qualcosa che non saprei come altro definire se non una specie di delusione che ricaccio sul fondo della mia cesta dei panni sporchi solo con un esercizio di razionalità. E’, questa sensazione, parente stretta di quella che un’amica descrisse bene dopo una serata passata in un centro di accoglienza per rifugiati: “è come se ci desse fastidio l’allegria di questi ragazzi, che hanno vent’anni e tutto il diritto di essere allegri anche se sono scappati da guerre e carestie, è come se per noi andassero bene solo quando sono piangenti, afflitti, emaciati; è come se pensassimo come si permettono di stare bene, non sarà che è tutta una presa in giro?” Mentre sto per rimettere il telefono nella tasca dei jeans arriva una notifica. Un messaggio, arriva da U., che dal suo paese in guerra è scappata prima per rientrare poi, che vive in una regione nella quale non si è mai combattuto, dove la morte ha preso la forma degli uomini coscritti e mandati al fronte ma non è arrivata nelle case dei civili, dove i campi possono ancora essere coltivati perché non sono stati riempiti di mine, dove i bambini vanno a scuola una settimana sì e una no perché le scuole sono state costruite in tempo di pace e le cantine non sono abbastanza grandi da accoglierli tutti quando suonano le sirene degli allarmi aerei. Mi chiede se sono rientrato, se è andato tutto bene. Le rispondo di sì e le chiedo di M. e V., i figli delle cui fotografie ho una grande cartella nel telefono; chissà come sono cresciuti dall’ultima volta che li ho visti di persona, le scrivo. Nell’italiano rugginoso dei traduttori online mi scrive “sono cresciuti non solo nel corpo, ma anche nella mente. I nostri figli sono stanchi della guerra, grazie alle restrizioni non c’è un’infanzia a tutti gli effetti”. Passano venti, trenta secondi e arriva un nuovo messaggio: “Ma siamo contenti di ogni giorno che viviamo, ora abbiamo valori completamente diversi nella vita”. Ripenso alla mia delusione, mi vergogno un po’ di me stesso e le scrivo di abbracciare i ragazzi da parte mia; poi, ritorno alla confusione del rientro e ai messaggi di lavoro che mi aspettano dalla settimana scorsa.
07/04/2023
Per me, la cosa oggi più interessante della querelle ChatGPT-Garante Privacy è ciò che ne sta fuori, a contorno, essendone al tempo stesso parte integrante.
E’ l’atteggiamento verso il futuro, quella cosa che si diverte a smentirci quasi sempre e quasi comunque.
Sono affascinato – e anche impaurito, un po’ – da chi arriva al domani nel segno dell’inevitabilità, come se il futuro fosse qualcosa che non possa essere guidato, almeno in parte, con tutti i limiti dei compromessi e delle lotte fra gli umani; e da chi pensa che il futuro sia sempre, ancora inevitabilmente, meglio del presente in tutto e per tutto, che il futuro sia sempre progresso e non evoluzione.
24/02/2023
Un anno fa, più o meno a quest’ora, stavo facendo una presentazione online a un manager padovano. Avevamo da poco sentito le notizie che venivano dall’Ucraina e cercavamo di farcene una ragione, di dare un senso a qualcosa che sembrava tanto enorme quanto incredibile. Poco dopo mi sarei fermato per qualche minuto e sarei andato a riguardare le foto fatte a Kiev nel 2017, gli enormi pannelli di Maidan che dicevano Freedom is our religion sopra il disegno di una grossa catena che si spezza e mi sarei trovato a pensare che, come qualunque italiano, ero stato in moltissimi posti che in passato si erano ritrovati più o meno devastati dalla guerra: in effetti in uno di questi ci vivo e me ne ricordo solo in qualche rara occasione, come quando passo per le Cinque Vie o vado in cima alla Montagnetta. Ricordo distintamente l’impressione che mi fece realizzare che in quel momento stavano cadendo missili in posti dove avevo fatto il turista meno di cinque anni prima (poi ok, già allora bastava fare un giro intorno all’Ukraine Hotel dove dormivamo per vedere centinaia di foto in bianco e nero di gente ammazzata a colpi di mitra giusto tre anni addietro: è che la pace sembra eterna).
14/02/2023
Se dovessi dire che mi ricordo per quale motivo ho aperto questo blog, mentirei. Credo – ma non ne sono sicuro – per un misto di curiosità, imitazione, inconsapevolezza; poi era una cosa che aveva a che fare con lo scrivere, attività che, a prescindere dai risultati, mi aveva sempre dato piacere.
Comunque.
Sta di fatto che ho scritto il primo post vent’anni fa. Vent’anni esatti, cosa che noto perché le cifre tonde hanno sempre il fascino perverso della perfezione estetica. In mezzo, quanta roba; niente di straordinario, nulla che sia passato alla storia, ma insomma le vite delle persone comuni sono così, importanti per chi le vive e irrilevanti per tutti gli altri. Tengo aperto questo posto senza uno scopo preciso: per affetto, forse, e anche perché sui tempi lunghi si finisce per fare il giro: vent’anni fa era “ah dai, interessante, hai un blog?” e oggi è “ah dai, interessante, davvero hai ancora un blog?”. E’ quello, il mio piccolo bar personale che ha un solo avventore, il sottoscritto: ne tengo orgogliosamente e pigramente immutato l’arredamento e ogni tanto vengo a controllare che sia tutto a posto, perché è un luogo al quale tengo. Per la rivoluzione, invece, mi sa che toccherà andare da qualche altra parte.
08/02/2023
A. ha tredici anni, i lineamenti fini, i capelli biondi e l’espressione vagamente malinconica che hanno i ragazzini costretti a fare i conti con una malattia, una cosa che a volte li costringe a stare seduti quando gli altri corrono o dire no grazie, non posso quando qualcuno gli offre un gelato. Ha passato l’ultimo mese a casa dei nonni, nella periferia milanese, insieme ai genitori e al fratello minore. Un posto dove, sono certo, non avrebbe voluto tornare: non così come ha dovuto farlo, per una visita di controllo e in attesa di salire su un aereo per andare ancora più lontano da casa sua, ancora più a ovest, in un posto dove non c’è la guerra e il padre ha trovato un lavoro. Quando mi ha visto si è alzato dal letto sul quale stava sdraiato tenendo in mano il telefono, l’unico – o almeno il più importante – contatto con il mondo in un paese dove, a parte i membri della sua famiglia, conosce solo una manciata di ragazzini con i quali ha imparato a comunicare a gesti: e quei ragazzini oggi vanno a scuola e quando finiscono hanno i loro impegni – il calcio, il nuoto, il catechismo, le ripetizioni: tutto tempo che non possono dedicare a A. e a suo fratello. Mi è venuto incontro e, come ha sempre fatto, ogni volta che sono andato a trovarlo durante i tre mesi del suo primo soggiorno italiano, mi ha abbracciato nel modo goffo che affligge i ragazzi della sua età: e io ho restituito l’abbraccio, ancora più goffo di lui, senza saper affrontare la differenza di altezza e l’indefinibile imbarazzo di queste situazioni. Poi ho parlato con sua nonna, ho bevuto il caffè che mi ha preparato sua mamma e il bicchiere di vodka che suo nonno mi ha come sempre imposto e ho spiegato a gesti a suo padre quando avrebbe dovuto tirare fuori dalla grande busta di documenti che accompagna la famiglia in questa emigrazione il foglio che autorizza il trasporto di certi medicinali. A. guardava con i suoi occhi chiari i biglietti aerei appoggiati sul tavolo; ho preso il telefono, ho aperto l’app di traduzione e ho scritto una domanda stupida, l’unica che mi è venuta in mente di fargli: “Sei contento di partire?”. Lui ha guardato lo schermo, le lettere del suo strano alfabeto, poi ha alzato il viso e ha fatto no con la testa. Lo ha fatto con il sorriso più triste che io abbia mai visto, quello di chi è abbastanza grande non per sapere, ma almeno per sentire cosa sta succedendo, cosa è già successo alla sua vita: sa che quella che ha vissuto fino a un anno fa, e che per qualche mese ancora ha sperato di poter tornare a vivere, è finita; quello di chi si vede strappato agli amici, alla scuola, alla canna da pesca e al pallone e al prato che circonda la sua casa nella provincia ucraina ed è certo che non tornerà più indietro. Cancello la prima domanda. Scrivo “Guarda che state andando in un bel posto, credimi” e se potessimo parlarci proverei a dirgli che non lo sto prendendo in giro, non lo sto illudendo, io in quella città ci sono stato tante volte ed è bella davvero, c’è lo stadio incastrato in mezzo alle case e c’è il mare e si mangia bene: e lui sorride ancora e non ha bisogno di parlare per farmi capire che non è che non mi crede, è che non gli interessa, non può essere un bel posto perché non è casa sua, non è dove lui vuole stare e diventare grande. Qualche minuto dopo saluto tutta la famiglia, uno alla volta. Ai due fratelli faccio vedere l’ultima scritta sullo schermo, quando arrivate fatemi sapere come state, scrivetemi, e loro fanno sì con la testa e poi in fretta riportano gli occhi sui loro telefoni, gli unici posti dove hanno il mondo, quelli dove si rifugiano dopo essere stati costretti a lasciare la loro casa e la loro vita dalla guerra, che li ha sfiorati con le armi e schiantati con la paura.
|
|
|