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La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla.
(Gabriel Garcia Marquez)

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    07/04/2023

    Inevitabilmente

    Filed under: — JE6 @ 11:37

    Per me, la cosa oggi più interessante della querelle ChatGPT-Garante Privacy è ciò che ne sta fuori, a contorno, essendone al tempo stesso parte integrante.

    E’ l’atteggiamento verso il futuro, quella cosa che si diverte a smentirci quasi sempre e quasi comunque.

    Sono affascinato – e anche impaurito, un po’ – da chi arriva al domani nel segno dell’inevitabilità, come se il futuro fosse qualcosa che non possa essere guidato, almeno in parte, con tutti i limiti dei compromessi e delle lotte fra gli umani; e da chi pensa che il futuro sia sempre, ancora inevitabilmente, meglio del presente in tutto e per tutto, che il futuro sia sempre progresso e non evoluzione.

    24/02/2023

    La pace sembrava eterna

    Filed under: — JE6 @ 10:45

    Un anno fa, più o meno a quest’ora, stavo facendo una presentazione online a un manager padovano. Avevamo da poco sentito le notizie che venivano dall’Ucraina e cercavamo di farcene una ragione, di dare un senso a qualcosa che sembrava tanto enorme quanto incredibile. Poco dopo mi sarei fermato per qualche minuto e sarei andato a riguardare le foto fatte a Kiev nel 2017, gli enormi pannelli di Maidan che dicevano Freedom is our religion sopra il disegno di una grossa catena che si spezza e mi sarei trovato a pensare che, come qualunque italiano, ero stato in moltissimi posti che in passato si erano ritrovati più o meno devastati dalla guerra: in effetti in uno di questi ci vivo e me ne ricordo solo in qualche rara occasione, come quando passo per le Cinque Vie o vado in cima alla Montagnetta. Ricordo distintamente l’impressione che mi fece realizzare che in quel momento stavano cadendo missili in posti dove avevo fatto il turista meno di cinque anni prima (poi ok, già allora bastava fare un giro intorno all’Ukraine Hotel dove dormivamo per vedere centinaia di foto in bianco e nero di gente ammazzata a colpi di mitra giusto tre anni addietro: è che la pace sembra eterna).

    14/02/2023

    After all these years

    Filed under: — JE6 @ 12:33

    Se dovessi dire che mi ricordo per quale motivo ho aperto questo blog, mentirei. Credo – ma non ne sono sicuro – per un misto di curiosità, imitazione, inconsapevolezza; poi era una cosa che aveva a che fare con lo scrivere, attività che, a prescindere dai risultati, mi aveva sempre dato piacere.

    Comunque.

    Sta di fatto che ho scritto il primo post vent’anni fa. Vent’anni esatti, cosa che noto perché le cifre tonde hanno sempre il fascino perverso della perfezione estetica. In mezzo, quanta roba; niente di straordinario, nulla che sia passato alla storia, ma insomma le vite delle persone comuni sono così, importanti per chi le vive e irrilevanti per tutti gli altri. Tengo aperto questo posto senza uno scopo preciso: per affetto, forse, e anche perché sui tempi lunghi si finisce per fare il giro: vent’anni fa era “ah dai, interessante, hai un blog?” e oggi è “ah dai, interessante, davvero hai ancora un blog?”. E’ quello, il mio piccolo bar personale che ha un solo avventore, il sottoscritto: ne tengo orgogliosamente e pigramente immutato l’arredamento e ogni tanto vengo a controllare che sia tutto a posto, perché è un luogo al quale tengo. Per la rivoluzione, invece, mi sa che toccherà andare da qualche altra parte.

    08/02/2023

    A., che deve salire su un aereo

    Filed under: — JE6 @ 12:53

    A. ha tredici anni, i lineamenti fini, i capelli biondi e l’espressione vagamente malinconica che hanno i ragazzini costretti a fare i conti con una malattia, una cosa che a volte li costringe a stare seduti quando gli altri corrono o dire no grazie, non posso quando qualcuno gli offre un gelato.
    Ha passato l’ultimo mese a casa dei nonni, nella periferia milanese, insieme ai genitori e al fratello minore. Un posto dove, sono certo, non avrebbe voluto tornare: non così come ha dovuto farlo, per una visita di controllo e in attesa di salire su un aereo per andare ancora più lontano da casa sua, ancora più a ovest, in un posto dove non c’è la guerra e il padre ha trovato un lavoro. Quando mi ha visto si è alzato dal letto sul quale stava sdraiato tenendo in mano il telefono, l’unico – o almeno il più importante – contatto con il mondo in un paese dove, a parte i membri della sua famiglia, conosce solo una manciata di ragazzini con i quali ha imparato a comunicare a gesti: e quei ragazzini oggi vanno a scuola e quando finiscono hanno i loro impegni – il calcio, il nuoto, il catechismo, le ripetizioni: tutto tempo che non possono dedicare a A. e a suo fratello. Mi è venuto incontro e, come ha sempre fatto, ogni volta che sono andato a trovarlo durante i tre mesi del suo primo soggiorno italiano, mi ha abbracciato nel modo goffo che affligge i ragazzi della sua età: e io ho restituito l’abbraccio, ancora più goffo di lui, senza saper affrontare la differenza di altezza e l’indefinibile imbarazzo di queste situazioni.
    Poi ho parlato con sua nonna, ho bevuto il caffè che mi ha preparato sua mamma e il bicchiere di vodka che suo nonno mi ha come sempre imposto e ho spiegato a gesti a suo padre quando avrebbe dovuto tirare fuori dalla grande busta di documenti che accompagna la famiglia in questa emigrazione il foglio che autorizza il trasporto di certi medicinali. A. guardava con i suoi occhi chiari i biglietti aerei appoggiati sul tavolo; ho preso il telefono, ho aperto l’app di traduzione e ho scritto una domanda stupida, l’unica che mi è venuta in mente di fargli: “Sei contento di partire?”. Lui ha guardato lo schermo, le lettere del suo strano alfabeto, poi ha alzato il viso e ha fatto no con la testa. Lo ha fatto con il sorriso più triste che io abbia mai visto, quello di chi è abbastanza grande non per sapere, ma almeno per sentire cosa sta succedendo, cosa è già successo alla sua vita: sa che quella che ha vissuto fino a un anno fa, e che per qualche mese ancora ha sperato di poter tornare a vivere, è finita; quello di chi si vede strappato agli amici, alla scuola, alla canna da pesca e al pallone e al prato che circonda la sua casa nella provincia ucraina ed è certo che non tornerà più indietro. Cancello la prima domanda. Scrivo “Guarda che state andando in un bel posto, credimi” e se potessimo parlarci proverei a dirgli che non lo sto prendendo in giro, non lo sto illudendo, io in quella città ci sono stato tante volte ed è bella davvero, c’è lo stadio incastrato in mezzo alle case e c’è il mare e si mangia bene: e lui sorride ancora e non ha bisogno di parlare per farmi capire che non è che non mi crede, è che non gli interessa, non può essere un bel posto perché non è casa sua, non è dove lui vuole stare e diventare grande.
    Qualche minuto dopo saluto tutta la famiglia, uno alla volta. Ai due fratelli faccio vedere l’ultima scritta sullo schermo, quando arrivate fatemi sapere come state, scrivetemi, e loro fanno sì con la testa e poi in fretta riportano gli occhi sui loro telefoni, gli unici posti dove hanno il mondo, quelli dove si rifugiano dopo essere stati costretti a lasciare la loro casa e la loro vita dalla guerra, che li ha sfiorati con le armi e schiantati con la paura.

    26/01/2023

    Debito di ossigeno

    Filed under: — JE6 @ 12:04

    Rivedo Y. dopo sei mesi. Questa volta, insieme ai due figli, c’è anche I., il marito. Non l’ho riconosciuto, ma so che era lui l’uomo che nella sera fredda di Hlyboka di dieci mesi fa mi ha aiutato a caricare il furgone con i pochi bagagli che la sua famiglia estesa stava portando in fretta e furia fuori dall’Ucraina, ha salutato con un cenno i ragazzini infreddoliti e confusi, ha dato un bacio sulla guancia alla moglie seduta vicino al finestrino nella prima delle tre file di sedili e mi ha fatto un cenno come per dire “adesso tocca a te portarli fuori da qui, stai attento”. Ora si trovano di nuovo in Italia, tappa intermedia nel viaggio verso la Spagna dove un parente pare avere la possibilità di trovargli un lavoro e una casa lontani dagli allarmi aerei, dai licenziamenti, dall’energia elettrica che dopo tre ore si interrompe per quattro, dai soldi che una volta erano pochi ma bastavano e oggi che sono ancora meno non bastano più. I. dovrà trovare un lavoretto per un paio di settimane, forse un mese, il tempo sufficiente a tirare su la cifra che servirà a pagare quattro biglietti di sola andata con una low cost: gli ultimi risparmi sono serviti a pagare il viaggio fino a Milano, a bordo di uno dei pullmini che hanno continuato a fare la spola fra l’Ucraina e il resto dell’Europa, su ogni strada e con ogni tempo. Prima di salutarci vedo il video di un gruppo di soldati riuniti dentro un bosco a festeggiare il Natale: stanno in piedi, recitano qualcosa che sembra una preghiera, hanno volti seri ma non impauriti. Lo vedi questo, dice S., la mamma di Y.: è mio fratello, ora sta nell’esercito, qui sono a Bakhmut. Quella Bakhmut, chiedo io. Quella, risponde lei, ingoiandosi le maledizioni che ha in bocca. Mi chiedono se so cosa si deve fare per trasportare in aereo l’insulina di cui ha bisogno A., il figlio maggiore. No ma mi informo, state tranquilli, non sarà un problema, rispondo. Quando esco mi ritrovo a pensare che una guerra si può provare a vincerla in tanti modi, e che uno di questi è tirare via l’ossigeno di una famiglia come tante, come questa.

    16/01/2023

    Killing fields

    Filed under: — JE6 @ 16:44

    C’è questa mostra fotografica, al Mudec di Milano. Le immagini sono di Robert Capa, fotografo di guerra. Perché quello fece, quello fu praticamente per tutta la sua breve vita: guerra sino-giapponese, guerra di Spagna, Seconda Guerra Mondiale dalle battaglie nordafricane a quelle dell’avanzata alleata in Italia allo sbarco in Normandia alle macerie della Germania rasa al suolo; e l’Ucraina dopo il passaggio nazista e quello dell’Armata Rossa, la prima guerra fra Israele e i paesi arabi, e l’Indocina francese dove morì a quarant’anni saltando su una mina. Dicono che dopo l’esplosione teneva ancora la Contax II stretta nella mano sinistra. Una quantità di foto che hanno fatto la storia, dal miliziano spagnolo colpito alla testa al contadino siciliano che indica la direzione a un soldato americano, dalla corsa dei marines nell’acqua di Omaha Beach ai guerriglieri vietnamiti che sfilano indifferenti a fianco di un cadavere messo di traverso sul sentiero che stanno percorrendo. Non importa se alcune di queste immagini furono staged, costruite, messe in scena: non si rovina una buona storia con la verità, lo sappiamo da tanto tempo. E comunque, sono tutte immagini perfette, anche quelle tecnicamente sbagliate perché scattate in condizioni precarie, in fretta e con attrezzature non paragonabili a quelle odierne: in ognuna ci trovi qualcosa che viene da lontanissimo, dall’abisso nel quale siamo forse nati tutti, noi, i nostri padri, i padri dei nostri padri e così a risalire: lui per certo, ebreo ungherese fuggito dall’Europa antisemita nella quale gli era toccato nascere. Sarà che è un periodo un po’ così, la guerra che conosciamo tutti, quella che ho sfiorato andando due volte in Ucraina, non lo so: dalla mostra sono uscito sfinito senza aver fatto altro che camminare e ogni tanto commentare con mia moglie quel che avevamo davanti agli occhi. Mi sono aggrappato a una delle poche immagini serene di quell’interminabile carrellata di morte, quella di un gruppo di ragazzini cinesi ritratti dall’alto mentre giocano a palle di neve. Se ne vede uno che alza il volto verso il cielo, le braccia aperte come per abbracciare qualcuno che da quel cielo sta scendendo, gli occhi chiusi, il sorriso più gioioso che si possa immaginare: solo, nella sua bolla di felicità, che novant’anni dopo sembra di poter ancora toccare stando attenti a non romperla.

    15/12/2022

    On this day

    Filed under: — JE6 @ 15:09

    A volte arriva da Google, altre da Amazon, altre da entrambe: è la notifica “in questo giorno, l’anno scorso o dieci anni fa, hai scattato questa foto”. Ogni tanto non riconosco i posti: un po’ è l’età, un po’ è che certi scorci si assomigliano tutti fra di loro – le case a graticcio, i ponti con i lucchetti, i campanili contro i cieli grigi -, un po’ è che magari in certi posti mi sono fermato giusto il tempo di un caffè e di una foto senza il tag geografico, non abbastanza per lasciare traccia. Più spesso mi ricordo molto bene dov’ero, perché, cosa stavo facendo in quel momento e mille altri dettagli che hanno senso solo per me. E, spesso in quel più spesso, la notifica è una piccola ferita, un dolore minuto ma reale, concreto: non perché i ricordi siano brutti, anzi. Proprio per il motivo opposto, perché vedere una foto che ho preso a Montreal o sulla strada tra Foggia e Lucera mi fa sempre pensare e io quando ci potrò mai tornare a Montreal o sulla strada tra Foggia e Lucera e allora chiudo tutto, e cerco di pensare ad altro.

    16/11/2022

    Nuvole

    Filed under: — JE6 @ 12:33

    Leggo, nel pezzo quotidiano di Adriano Sofri, che in ogni singolo momento le nuvole coprono il settanta per cento del pianeta. Non se lo inventa, riporta le parole di Vincenzo Levizzani, che nella vita fa un lavoro meraviglioso: insegna fisica delle nubi. E già che c’era, ha scritto “Piccolo manuale per cercatori di nuvole”, che è quel che siamo un po’ tutti almeno una volta nella vita. Il settanta per cento della terra, in un momento qualsiasi, è coperto dalle nuvole. Mi sembra tantissimo perché guardo fuori dalla finestra e oggi a Milano le nuvole non solo ci sono, ma sono spesse e grigie, di quelle da freddo e un po’ di pioggia, e mi vedo il mondo sotto questa coperta. Ma poi penso che di nuvole ce ne sono di tanti tipi diversi, ognuno col suo nome strambo, e che sicuramente da qualche parte qualcuno si sta godendo quelle che oggi gli sono state date in sorte perché sono proprio belle a vedersi. Poi mi fermo, perché la metafora è troppo frusta per essere usata senza imbarazzo, ma insomma chi l’ha detto che la vita bella è un cielo senza nuvole.

    10/11/2022

    Sembra

    Filed under: — JE6 @ 12:01

    E’ uno di quei periodi nei quali tutto sembra ripetersi. “Tutto”, ovviamente, significa molte cose. O semplicemente alcune, che però sembrano più importanti di altre. Faccende di lavoro, decisioni del governo, l’inizio della stagione dei 76ers. Quindi è un “tutto” mio, personale. Può essere che parti di quel “tutto” siano comuni, condivise con altre persone, come succede nei condomini: e allora, proprio come succede nelle assemblee ordinarie e straordinarie, provi a fare gruppo con qualcuno per farti forza e non sentirti solo. Dopo, è tutta una faccenda di millesimi.

    Comunque.

    Il punto è che “sembra”. Perché invece non è mai così, c’è sempre almeno un piccolo dettaglio che rende le situazioni diverse, che non fa chiudere il cerchio riportandoti esattamente al punto di partenza. Uno scalino che non puoi, non vuoi, non riesci a risalire o ridiscendere. La pandemia? Forse. Una persona, una sola, che ieri c’era e oggi non c’è più? Forse. Un ufficio diverso? Forse. Il presidente americano? Forse.

    Sembra.

    27/10/2022

    Altre pandemie

    Filed under: — JE6 @ 17:01

    Com’era facile prevedere, l’epidemia dei dementi che gettano roba addosso a opere d’arte di una qualche minima, proprio minimissima importanza si sta velocemente trasformando in pandemia. Chissà se Pfizer riuscirà a metterci una pezza.