Madre lingua
In quest’ultimo paio di settimane, per motivi qui irrilevanti, ho avuto abbastanza spesso a che fare – in prima persona – con la sanità italiana. In particolare con una struttura, piuttosto nota qui a Milano, della quale anche in passato non ho mai avuto motivo di lamentarmi, nè per il trattamento ricevuto dalla “linea privati” nè per quello ricevuto dalla “linea ASL”.
Su tre occasioni, in due ho avuto a che fare con personale, medico e paramedico, palesemente straniero. In un caso, sono certo di non aver capito un 25-30% della diagnosi che mi è stata fatta in parte per mia scarsa conoscenza della materia, e in parte altrettanto consistente per l’italiano farraginoso della dottoressa slava (credo polacca) che mi aveva appena fatto l’esame.
Nel secondo caso mi sono trovato – disteso seminudo sul lettino di un macchinario di quelli che per mia fortuna avevo visto solo in qualche puntata di ER o House – un ago in vena pronto a iniettarmi una sostanza destinata ad un’altra persona, perchè la povera infermiera latinoamericana aveva capito male il mio cognome e mi aveva scambiato con un altro paziente/cliente/utente (scegliete voi il termine che più vi aggrada); col senno di poi la scena è dotata di una sua simpatia, con la tecnica di laboratorio che bussa al vetro e chiaramente chiede all’infermiera se è sicura di quello che sta facendo, e l’infermiera che chiede a me se io sono il signor X e io che rispondo con un sorriso mezzo ironico e mezzo disperato che no, cazzo, sono il signor S e l’infermiera che sbarra gli occhi e mi dice che allora ha capito male il mio cognome e che vabbeh, senta, allora facciamo che lasciamo l’ago dentro così se il dottore decide che lo usiamo siamo già pronti altrimenti non fa nulla. Non starò qui a dire che soltanto il Peroncino quotidiano appena assunto mi impedisce di arrovellarmi sul fatto che magari non mi hanno iniettato il liquido atteso dal signor X ma chi mi dice che non mi abbiano comunque fatto l’esame che sarebbe toccato a lui.
So benissimo di non rappresentare un campione statistico affidabile, e che questi due episodi sono, tutto sommato, poca cosa e che i problemi della sanità italiana sono ben altri. Però, forse, anche questo è un problema. Piccolo, ma che comunque c’è.
September 25th, 2008 at 14:20
E meno male che il signor X non aveva problemi alla prostata.
September 25th, 2008 at 14:24
Eh, come darle torto.
September 25th, 2008 at 15:59
Anche il personale sanitario autoctono ha problemi. Mia madre, che fa l’infermiera, si trova spesso a dover formare gruppi di colleghe polacche o peruviane, capaci ed efficienti, ma che non sanno la parola italiana per dire “flebo” o “catetere venoso” e non conoscono i nomi commerciali dei farmaci in uso. Non sono cattive lavoratrici, semplicemente non sanno la lingua. E questo è un handicap.
Nella sanità italiana c’è un gigantesco buco di personale causato in primis dalle riforme scolastiche (un infermiere non è più diplomato, ma laureato: a quel punto, moltissimi scelgono di farsi qualche anno in più e fare medicina), in secundis dalle paghe miserrime e dal fatto che non esista un vero sostegno per i tirocinanti, insomma le cose che sappiamo. Comunque il buco c’è, e lo si riempie con gente che costa poco. Tutto qua.
September 25th, 2008 at 19:21
l’ultima volta che ho dovuto fare un prelievo di sangue, dopo aver avvisato la signora preposta a tale operazione, che ho le vene invisibili ed è difficile trovarle, solo al decimo tentativo mi ha detto (in viterbese, ché era del luogo): Signò, eccerto che lei ce l’ha proprio nascoste le vene, eh?
Altri 5 buchi sull’altro braccio e alla fine, mentre stavo anticipando il movimento EMO nella Tuscia, una timida vena si mostrò e sangue fu:
“A signo’, a visto che ce l’emo fatta, à la fine? Con la TAC invece andò tutto a gonfie vele 🙂
S.