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La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla.
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    20/09/2012

    Greetings from Shanghai 2012 – At the Fairmont Peace

    Filed under: — JE6 @ 18:19

    Tutto sommato, credo che il Bund sia la più bella via del mondo, almeno di quello che ho visto io, più di qualsiasi via italiana, più della Fifth Avenue, più del Royal Mile, più degli Champs Elysées. Non mi viene facile spiegare perché, se sono i palazzi coloniali di Zhongshan East Road o le centinaia di migliaia di persone che percorrono l’eterno lungofiume dalla statua del sindaco – quello che avevo scambiato per Mao, si vede che per avere la carica bisognava assomigliargli – verso l’Hotel Indigo e oltre ancora, se è la visione dello skyline di Pudong con i grattacieli altissimi e coloratissimi o se sono i galeoni illuminati come alberi di Natale che portano i turisti lungo lo Huangpu, se è tutto questo o altro ancora non lo so, e in fondo importa poco. So che mi piace camminarci, guardare le luci, passare alle spalle delle coppie che si scattano fotografie, fare no con la testa alle cento offerte di lady-sex-massage, fissare la nebbiolina di umidità e inquinamento fino a quando ho le stelline negli occhi. E so che mi piace tornare in Nanjing Road, tenere il marciapiede di destra ed entrare al Fairmont Peace Hotel, che viene dritto da un’altra epoca e un altro mondo, guardare le magnifiche foto in bianco e nero che mostrano Duke Ellington e Louis Armstrong e Benny Goodman viaggiare spesati dal Dipartimento di Stato in India e in Pakistan e in Iraq quando ancora si credeva che la musica e l’arte fossero qualcosa di cui essere orgogliosi al punto da usarle come strumenti di diplomazia, immaginare Churchill che scende dalle scalinate di marmo, mi piace fermarmi a fare quattro chiacchiere con la ragazza vestita di nero che mi chiede would you like to drink something sir, risponderle che sono qui proprio per quello, sorridere quando mi saluta con le sole parole di italiano che conosce – ciao bello -, mi piace entrare al bar del Fairmont Peace che una volta si chiamava Cathay Hotel e sedermi a un tavolo d’angolo e chiedere un Singapore Sling e ascoltare questo gruppo di anzianissimi jazzisti cinesi suonare qualsiasi cosa gli passi per la testa – l’altra sera han fatto persino un pezzo dei Beatles e gliel’ho perdonato perché questi sei uomini hanno l’immenso e salvifico potere di chiudere il resto del mondo fuori dalla sala fatta di legni scuri e vetri antichi, e tutti aspettano il momento in cui i fiati si alzano in piedi e suonano le percussioni e ti pare di vedere il maestro di Karate Kid, solo con le maracas in mano, e giri la testa verso l’entrata, e ti dici adesso entra la Hayworth e allora sì che muoio felice.

     

    Greetings from Shanghai 2012 – Piedi

    Filed under: — JE6 @ 13:17

    All’incrocio tra Xizang Lu e Jiujiang Lu siamo in tanti, fermi ad aspettare che il semaforo torni verde. C’è il solito caldo appiccicaticcio e inquinato di sempre, e le folate di aria che vengono dal canalone pedonale di Nanjing non fanno altro che alzare sudore e gas di scarico. Porto gli occhi verso il basso. Là in mezzo guardo un piede di donna, vestito da una scarpa elegante, tacco alto ma non troppo, che regge il peso di uno scooter rosso con una ruota in strada e una sul marciapiedi. Alzo gli occhi, seguo la gamba della donna, la gonna nera poco sopra il ginocchio, la camicetta bianca, la borsa, la pettinatura curata – potrebbe essere una middle manager, una executive assistant, una qualsiasi tra le quasi venti milioni di persone che vivono qui che ha un biglietto da visita stampato su due lati, uno scritto in cinese e l’altro in inglese, una con un appartamento né grande né piccolo, con uno stipendio abbastanza buono da potersi pagare dei buoni vestiti, un parrucchiere, un ristorante, un fitness club, un biglietto di un treno ad alta velocità. Riporto gli occhi in basso, a pochi centimetri da quel piede ce ne sono altri due, di uomo, distesi su un fianco, neri di uno sporco ormai preistorico, tagliati, pieni di croste. Muovo lo sguardo in orizzontale, verso sinistra, seguo la linea di un pezzo di tela che un tempo era un pantalone, poi all’altezza del ginocchio non vedo più nulla, il corpo sdraiato per terra al semaforo tra Xizang e Jiujiang scompare in mezzo alle cento, duecento, mille persone che aspettano il verde del semaforo e il fischio del vigile urbano per muoversi andando a ricreare l’ennesima immensa fiumana che riempie ogni centimetro della città. Il semaforo cambia colore, il vigile urbano fischia, la punta del piede della donna spinge quel tanto che basta per muovere lo scooter verso il centro della strada. Mi muovo anch’io, e i piedi dell’uomo spariscono nella folla.