Sotto le stelle del Messico a emigrar
Avevo un giorno libero, prima di rientrare in Italia. Scesi nella hall e chiesi alla signora che stava dietro il banco della reception di confermarmi che a un paio di isolati avrei trovato la fermata del tram che portava da downtown San Diego al confine con il Messico e da lì, in cinque minuti a piedi, a Tijuana. Quella sbiancò in faccia, guardi che è pericoloso, non ha letto il giornale di oggi (l’avevo letto, sì: da qualche parte, non lontano, avevano ritrovato i corpi di 16 persone uccise nella millesima sparatoria tra bande di narcos: beh, ma io mica vado a cacciarmi in mezzo alle colline, mi ero detto). Io feci sì con la testa, le offrii il mio miglior sorriso e puntai di nuovo il dito sulla mappa della città che stava appoggiata sul bancone: è questa qui, giusto?, le dissi e lei ci mancò poco che mi tirasse uno schiaffo come una madre a un ragazzino disobbediente, prima di rispondere che sì, era quella lì. Non sono mai stato bravo a sorridere.
Comunque arrivai al confine, scesi dal tram e passai quasi senza fiatare davanti a una pattuglia di marines messicani – li chiamano così anche loro, sarà per comodità – prima di avere l’impressione che in duecento metri tutti i colori sembravano essere diventati di colpo più forti e brillanti e saturi. A Tijuana passai mezza giornata, giusto il tempo sufficiente per poter dire oh, sono stato in Messico, mezza giornata che ricordo tutta con la stessa nitidezza di quei colori che poi tornavano a sbiadire una volta rimesso piede in California. Ai tempi quello era il confine più trafficato del mondo, almeno per i passaggi ufficialmente registrati – lo scrivevano pure sui cartelli in città come motivo di vanto. E’ che non c’era molto da vantarsi perché di quei cinquantaquattro milioni di movimenti in un anno ce ne saranno stati cinquantatrè in un senso e uno nell’altro, e indovina in che direzione andava il flusso vero, quello che a qualsiasi ora ricordava la carovana che da giorni si sta muovendo dal Messico verso gli Stati Uniti, quella che fa tanta paura a Trump. Ti mettevi lì, a cavallo della striscia di mezzeria, e guardavi. Di qua una macchina e due pedoni ogni tanto, di là una cosa riassunta in una frase fatta di cui avrei capito meglio il senso qualche anno dopo cercando di uscire vivo dalla fermata della metro di Shanghai di People’s Square, il fiume di persone. E, stando in mezzo, a cavallo di quella striscia di mezzeria, la chiara sensazione, la certezza che non puoi lottare (posto che tu pensi di doverlo fare: e no, in questo e in quel caso io non lo credevo) contro un popolo intero. Non si può fare il broncio ai propri tempi senza riportarne danno, diceva Musil, e oggi, ripensando a quel giorno sulla linea di confine di Tijuana, non solo penso che avesse ragione: lo spero.