Dare casa alle cose
Una decina di giorni fa Rolling Stone ha pubblicato un pezzo di Chad Smith, il batterista dei Red Hot Chili Peppers, che ricordava i suoi incontri con Charlie Watts (se appena vi è capitato di vivere nel corso delle ultime settimane, il classico nome-che-non-ha-bisogno-di-presentazioni). Di articoli come questo ne ho letti decine – Watts era a suo modo un totem: e pare che lo fosse, in modo decisamente singolare dato l’ambiente del quale è stato una stella per sessant’anni e ancora di più per quelli che sono stati i suoi compagni di strada durante quei decenni, anche per il suo essere quel che gli inglesi chiamano “a decent man”, una persona perbene, dignitosa, educata, discreta, cortese e aggraziata; vedi a volte come i requisiti di base diventano eccezionali – ma c’è una piccola chicca che mi ha affascinato e alla quale continuo a pensare. Watts raccontò a Smith di essere un collezionista di batterie di grandi jazzisti. Non le vedo mai, gli disse, stanno lì da qualche parte nel mio deposito ma le prendo perché voglio che si sappia che c’è qualcuno che se ne prende cura (il corsivo è mio). Smith – uno al quale, va detto, non viene proprio spontaneo attribuire una gran profondità di pensiero: vedi alle volte che l’abito non fa il monaco – ritorna a quel momento e dice di Watts: voleva solo dare a quegli strumenti una casa e qualcuno che se ne occupasse, aggiungendo che trovò quel comportamento “dolce e gentile”. Che è la stessa cosa che ho pensato io guardando a quel pezzetto della vita di quell’uomo senza sapere se era uno che amava più i rullanti degli esseri umani o meno: perché siamo (anche) le cose che scegliamo per accompagnarci, e trattarle con una sorta di amore non significa venerare degli idoli ma mostrare affetto a ciò che contengono, che simboleggiano, che esprimono. E, un po’, anche a noi stessi e a coloro che ce le hanno passate.