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24/01/2015
Camminano a passo lento, scambiando poche parole. Quella era la mia scuola, dice lei, lui segue la direzione della voce e sposta gli occhi, Elementari?, Elementari e medie, Eri brava a scuola? Nella media, non ero la più brava della classe ma me la cavavo. Lui fa un piccolo scarto, di quelli che vengono quando non conosci i posti nei quali ti trovi e cammini spostando lo sguardo, la tocca col gomito, Scusa, lei non risponde e lui per una frazione di secondo allunga la mano come se la volesse prendere sotto braccio, poi si ferma e la rimette nella tasca dei jeans. Così questa è casa tua, non sembra nemmeno di stare in città, dice lui, Un po’ è vero, è una zona tranquilla, Ci sono ancora i negozi, Sì, quando ho tempo mi fermo qui a fare la spesa, li conosco tutti da quando ero piccola. Entrano in un piccolo parco giochi, quattro o cinque panchine, uno scivolo, una giostra, due cavallini appoggiati su molle che hanno visto tempi migliori. Tu ti ricordi quando eri bambino? Qualcosa sì, anche se non molto, Anch’io non ricordo tanto, così ogni tanto mi fermo e provo a farlo, a tornare indietro, E ci riesci? A volte, a volte no e allora faccio questo, si abbassa lentamente piegando le ginocchia fino a rannicchiarsi vicino all’erba stinta del parchetto, Questo cosa, chiede lui, Questo, abbassarmi, Non ti seguo, Se scendi di un metro vedi le cose come le vedono i bambini, come le vedevamo io e te quando avevamo sette anni, prova, e anche lui si abbassa, piega le ginocchia, si guarda intorno, Hai ragione, si guarda intorno e vede i muri delle case di un colore che non sa definire e sente i suoni lontani di un traffico che non è il suo e di un accento che non è il suo e poi chiude gli occhi e trattiene il respiro, Cosa fai? Cerco di immaginare tutto questo in bianco e nero, E perché? Non so, il passato è in bianco e nero, Non sempre, Non sempre, è vero, E cosa vedi adesso, Ho gli occhi chiusi, Lo so, ma so che stai vedendo qualcosa, ti conosco, Sto cercando di vedere te qui in questo parco quando ti fermavi con le tue amiche tornando da scuola, E com’ero secondo te, Non riesco a capirlo, ma bella come oggi, Sei proprio scemo, Ti stavo aspettando, ma secondo me è proprio così e avrei voluto essere qui a guardarti, Non mi avresti nemmeno vista, E’ quello che pensavi e invece sono qui, Sì, E adesso andiamo, accompagnami a prendere il taxi.
14/10/2014
Chissà se sta contando le fermate, questa è la seconda allora è Palestro, o se a un certo punto aprirà gli occhi e si renderà conto di aver passato da un pezzo la sua, ma come Buonarroti, ma cosa ci faccio qui. Intanto gli occhi li tiene chiusi e forse sogna, o forse sta sognando ad occhi aperti anche se ha le palpebre chiuse, chissà cosa gli passa per la mente, cosa sta ricordando, dove vorrebbe essere, di sicuro non sta ascoltando le due mamme che gli siedono vicine in questo sabato piovoso, ma quand’è il prossimo open day, il quindici, ma è la data dello scientifico, lo so ma mio figlio mica ha deciso cosa vuole fare da grande. Sorride, incurante delle chiacchiere, del rumore della metropolitana, ha una barba da zio russo e la faccia di un bambino di settant’anni. Sorride e cambia espressione, come se dietro quelle palpebre stessero passando tante immagini diverse, sorride chiuso in una bolla trasparente che lo protegge da una città che sta tornando a casa per il pranzo o che sta arrancando assonnata verso un brunch prima di fare la spesa per la settimana in arrivo. Scendono prima le mamme dei figli indecisi, poi scendo io, e lui resta lì, la mano appoggiata sulla coscia, l’espressione beata, chissà se arriverà fino al capolinea.
11/05/2014
Io cancello ricordi. Non lo faccio di mestiere, ogni tanto un amico, o un’amica di un amico arriva, bussa alla porta, si siede, io gli offro un caffè e così inizia tutto. Ogni volta. Non mi faccio pagare, non chiedo niente. Ho il mio lavoro, quello mi basta. Perché lo faccio? Perché c’era uno che diceva che la vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda. E allora perché non provare a passare una gomma su quella riga di matita? Come faccio, come succede: non lo so. A quel caffè ne segue sempre un altro, e un altro ancora. Io sto lì, ascolto. Mi faccio ripetere le cose cento volte, ma dov’eri seduta, cosa vedevi, che parole ti ha detto. E poi ancora, ma dov’eri seduta, cosa vedevi, che parole ti ha detto. E poi ancora. Perché è come quando parli, se una parola la dici dieci volte di fila, e poi venti, e poi cinquanta, e poi cento, alla fine quella parola non significa più niente, diventa solo un suono, uno come tanti altri, e in mezzo a tanti altri scompare. Certo, la gomma non può sempre essere precisa. Cancelli la riga, ma ti capita di sbavare e togliere qualcosa che stava vicino, e che magari avresti voluto tenere. Qualche volta succede, l’amico o l’amica dell’amico ripassa, magari per una birra e non più per il caffè e quando arriva a metà della bottiglia guarda verso la finestra e mi dice sai che, e io rispondo dimmi, e lui, e lei continua, sempre senza guardarmi perché da una parte mi è riconoscente e non vuole che io pensi madonna che ingratitudine, e mi parla di una persona alla quale un tempo teneva, non lo sento più, non la chiamo più, e perché gli chiedo io e allora si gira, a quel punto mi guarda con un’espressione smarrita, vorrebbe dirmi ma se non lo sai tu come faccio a saperlo io ma non lo fa, riprende la bottiglia e se la finisce, io mi alzo, questa volta la finestra la guardo io, e la risposta non la so, perché chi lo sa chi per davvero ha passato la gomma e non ha avuto la mano ferma, o ha passato la gomma, si è fermato per un momento e poi ha pensato che una riga non era sufficiente, che è meglio abbondare e se ci va di mezzo un innocente ce ne faremo tutti una ragione, ma anch’io sto zitto, torno al tavolo, prendo la mia bottiglia e la finisco in silenzio.
29/03/2014
Il ragazzo chiese all’uomo se andava tutto bene, e se aveva bisogno di aiuto. Lo fece prima nella sua lingua, poi in inglese. L’uomo gli rispose con un sorriso storto, disse che era tutto a posto e fece finta di cercare qualcosa nel piccolo zaino che gli stava appoggiato a una gamba. Guardò il tabellone degli orari delle partenze, pensando che otto binari erano davvero pochi per la stazione centrale di una capitale. Sentì l’ennesima fitta di dolore attraversargli il corpo, la sentì partire senza sapere da dove e la sentì arrivare, lenta, al cervello, alle spalle, ai piedi. Trattenne il respiro, chiuse gli occhi, li riaprì e fece un altro sorriso di scuse e noncuranza al ragazzo che continuava a guardarlo. L’uomo cercò con gesto meccanico il telefono in una delle tasche della giacca impermeabile che aveva comprato appositamente per il viaggio. Aveva pensato di farsi un’attrezzatura completa, ma quando si era visto nello specchio del camerino di prova del magazzino di articoli sportivi si era trovato triste e ridicolo; così si era limitato a comprare quella giacca, per il resto si sarebbe arrangiato con jeans e scarponi vecchi accatastati in qualche armadio del suo appartamento. Per una settimana sarebbe stato tutto più che sufficiente. Era partito in fretta e furia, quando i dolori erano diventati così frequenti da essere l’unica cosa che sentiva, perché temeva che quella sarebbe stata la sua ultima occasione. Rimandava quel viaggio da molti anni, dicendosi che c’era tempo, che l’occasione giusta sarebbe arrivata; guardando il binario ancora vuoto si disse che non era questa l’occasione che si era immaginato, ma se era l’ultima non c’era troppo da discutere, si sarebbe accontentato. Quando il tabellone degli orari si riempì con le informazioni che ancora mancavano l’uomo raccolse il piccolo zaino da terra e se lo mise in spalla, chiedendosi se quel che stava facendo aveva un senso, e quanto poteva apparire patetico agli occhi del ragazzo che gli aveva chiesto se andava tutto bene. Questo lo vide incamminarsi, cercò di ricordarsi le parole inglesi per augurare buon viaggio e si allontanò.
12/05/2012
L’uomo con lo zainetto nero stava con le mani in tasca, all’entrata occidentale della stazione, in mezzo alla folla di turisti orientali, borseggiatori, tassisti, carabinieri, guardando il traffico caotico della via che si sarebbe calmato solo a tarda notte, quando i barboni avrebbero steso i loro cartoni davanti alle vetrine della farmacia e le puttane avrebbero guardato l’orologio per controllare quanto tempo mancava alla fine del turno di lavoro. L’amico arrivò col suo passo tranquillo, quando incrociarono gli sguardi entrambi sorrisero, si strinsero la mano come ormai pareva che tutti facessero, con quella presa da braccio di ferro, e facendo leva sui gomiti si strinsero e si abbracciarono in fretta. Attraversarono la stazione, da una parte il McDonald’s e dall’altra la burger house fintoamericana, le edicole, i negozi di souvenir, le collane, i pupazzi di Hello Kitty, la libreria, le scarpe Nike, Hai tempo almeno per un caffè disse l’amico, Sì, rispose l’uomo con lo zainetto nero. Si fermarono in uno dei bar della stazione, trovarono un tavolino libero, l’amico ordinò due birre e l’uomo con lo zaino nero passò la mano sul tavolino per far cadere le briciole di un cornetto mangiato da chissà chi prima di loro. Parlarono del più e del meno, guardando la fila delle persone che aspettavano un taxi allungarsi e accorciarsi come un serpente stanco, Il lavoro come va, Bene, ce n’è fin troppo, Beh, per fortuna, Lo so, ma bisogna pur lamentarsi di qualcosa, Allora non ti fermi, No, poi rimasero per un po’ in silenzio, l’uomo con lo zaino nero che si rendeva conto che l’amico indossava una polo azzurra, di un azzurro strano, quasi stinto eppure luminoso, gli pareva di ricordarla quella maglietta, forse a un aperitivo qualche anno prima in un tardo pomeriggio di un giugno caldo e senza vento, l’amico che cercava di capire dove stesse andando l’uomo con lo zaino nero perché una cosa era certa, non stava tornando nella sua città, ma il biglietto del treno che spuntava dalla tasca dello zaino nascondeva la destinazione, E’ un anno che non ci vediamo, disse l’amico, Lo so, rispose l’uomo con lo zaino nero, Come stai, chiese l’amico, Benino, rispose l’uomo con lo zaino nero, Già, disse l’amico, poi entrambi guardarono il telefono, controllando per abitudine ora e messaggi, Dove stai andando, si decise a chiedere l’amico, Te lo dico quando arrivo, rispose l’uomo con l0 zaino nero, Se arrivo, aggiunse, Che cazzo dici, cosa vuol dire se arrivo, Non ti preoccupare, Se lo dici tu, rimasero ancora un po’ in silenzio, finendo le birre, ognuno pensando a quel posto, uno che sapeva dov’era e l’altro no ma sentiva che era da qualche altra parte, altrove, un posto nuovo qualunque cosa questo volesse dire, E’ quasi l’ora disse l’uomo con lo zaino nero, Sì, rispose l’amico, Senti, Dimmi, Fammi sapere quando arrivi, Certo, E dove arrivi, Va bene, Se arrivi, ovviamente, l’uomo con lo zaino nero rise, alzò la mano e strinse quella dell’amico con quella presa da braccio di ferro, e facendo leva sui gomiti si strinsero ancora, e ancora si abbracciarono in fretta, poi l’uomo con lo zaino nero disse Grazie per la birra e si allontanò andando verso i binari, l’amico non rispose e uscì, passando in mezzo alla fila delle persone in coda per prendere un taxi.
26/03/2012
Era iniziato tutto senza un motivo particolare: una sera si era messo a letto, aveva sfogliato qualche pagina di un libro, poi aveva spento la luce. E in quel momento, nel buio della stanza con le finestre oscurate dalle tapparelle abbassate, aveva provato una sensazione che non avrebbe saputo dire se fosse ansia, paura, angoscia o terrore, ma che gli fece comunque compagnia fino al mattino successivo. Non gli diede peso, una notte insonne capita a tutti in fondo, la sera dopo basta mangiare leggero, prepararsi una tisana, guardare un documentario e andare a letto tranquilli per recuperare quel che si è perso. Fu proprio quel che fece, mangiò leggero e si preparò una tisana e guardò un documentario e andò a letto tranquillo, fino a quando spense la luce e provò ancora quella sensazione alla quale non sapeva dare nome. Iniziò così, senza un perché, a non poter più dormire se non lasciava la luce accesa, cambiò la posizione nel letto per avere sempre di fronte agli occhi la finestra dalla quale poteva vedere il chiarore della notte illuminata dai lampioni e dai semafori e dai fari delle macchine che andavano e tornavano dall’autostrada, senza averlo deciso smise di andare a lavorare usando la metropolitana perché non riusciva a sopportare quei cinquanta secondi di tunnel buio tra una fermata e l’altra, e smise anche di fare straordinari perché questo voleva dire fermarsi in ufficio quando l’unica luce che rimaneva accesa era quella della lampada da tavolo che si era comprato per poterla usare anche in pieno giorno, sostituì tutte le plafoniere del suo appartamento con lampadari a quattro faretti, così da non rischiare di rimanere al buio quando una lampadina si fosse fulminata, insomma eliminò l’oscurità dalla sua vita per non sentirsi mancare il fiato e stringere lo stomaco e girare la testa quando non c’era luce intorno a sé.
La mattina che seguì il grande black-out, quello che fece spegnere i lampioni e sciogliere il ghiaccio dei congelatori e fermare gli aerei e abbaiare i cani e gridare i bambini e reso felici i ladri, la sua vicina di casa lo trovò accartocciato in mezzo all’aiuola nella quale si era gettato dal sesto piano, con le ossa rotte che lo facevano assomigliare a una vecchia bambola e un accendino ancora stretto nel pugno della mano destra. La donna corse sull’erba che aspettava di essere tagliata e che aveva attutito il colpo dell’impatto di quell’asteroide umano caduto da un balcone al punto che nessuno si era accorto di niente, gli girò la testa e vide che il volto era bruciato tutt’intorno agli occhi, solo lì, e non seppe mai, né mai potè immaginare che lui con quell’accendino si era fatto luce, e tale era il terrore che lo aveva preso quando la centrale elettrica aveva smesso di funzionare che la luce se l’era portata agli occhi, dentro gli occhi, senza sentire dolore quando la pelle aveva iniziato a bruciare e le pupille a liquefarsi, anzi provando l’infinito sollievo che gli mise in faccia quel sorriso assurdo, il sorriso di uno che non avrebbe mai più avuto paura nella sua vita, il sorriso incomprensibile che lei fissava e che avrebbe rivisto ogni sera cercando di addormentarsi fino a quando non fu più capace di sopportare il buio e fece in modo di vivere in una eterna lattiginosità che affogasse qualsiasi ricordo, qualsiasi paura, e quel sorriso.
07/12/2011
Sono le due del pomeriggio, e il traffico sembra prendersi un momento di riposo; un militare in mimetica appoggia il gomito sul finestrino abbassato mentre il collega innesta la marcia del camion che si sposta lungo la leggerissima discesa che porta verso la basilica. Il semaforo blocca le macchine che da una traversa laterale vogliono immettersi nel grande viale a quattro corsie. I guidatori hanno un’espressione tra l’annoiato e il rilassato, qualcuno fuma una sigaretta. Un uomo gli si para di fronte, cammina sulle strisce pedonali e quando arriva al centro della via si ferma. Ha un maglione rosso, pantaloni comodi chiari, una grossa pancia e almeno sessant’anni. A guardarlo da dietro, dal marciapiede sul lato opposto del viale, sembra una pera, con la testa pelata come picciolo. Ha un pallone in mano, e per tutta la durata del semaforo meno qualche secondo lo palleggia con la testa, come i calciatori nelle pause del riscaldamento prima della partita, come un animale del circo. Fa dieci, dodici palleggi, non molto alti ma precisi, con una grazia da foca che non attribuiresti a quel corpaccione sovrappeso. Dopo l’ultimo palleggio mette il pallone sotto il braccio sinistro, e con la mano destra si avvicina ai finestrini chiedendo una moneta che nessuno gli allunga. Il semaforo torna verde, l’uomo con il pallone riguadagna il marciapiede, un signore che si dirige verso la stazione slaccia i bottoni del cappotto nero e tutto riparte.
10/09/2011
Le odio, le giornate così. Quelle che non tira un filo d’aria, e l’acqua ha questo colore schifoso, di ferro sporco, e sudi stando ferma, e le gocce ti colano dalla fronte sugli occhi e la sola cosa che vuoi è essere da un’altra parte, qualunque altra parte del mondo. Le odio, le giornate così. Quelle che Matilde non la si regge, che arriva al molo con una faccia che hai già capito, trascinando i piedi, e mi dice ciao solo perché siamo amiche fin dall’asilo. L’istruttore sta sulla sua barchetta, e grida solo a me perché sa che con Matilde è tempo perso, la schiena, Vittoria, la schiena dritta e niente carrello mi grida, senti il remo nella mano, fallo scivolare, dai Vittoria, la schiena, e io raddrizzo la schiena e faccio tutto il movimento che ho imparato a memoria, dai Mati dico con quel poco fiato che mi rimane e lei mi risponde dai un cazzo, che è quello che fa sempre quando è di questo umore. Oggi è colpa di quel tipo con cui si è messa un paio di mesi fa, mi ha raccontato qualcosa di malavoglia mentre ci cambiavamo, le ho chiesto io perché a volte farla sfogare serve a farla stare un po’ meglio, dice che ieri dovevano uscire insieme, poi lui e i suoi amici e niente, non si è nemmeno fatto sentire lo stronzo, insomma le solite cose. Che poi cosa dico le solite cose, come se io ne sapessi qualcosa. Dai Mati è l’ultimo rettilineo, le dico, e questa volta lei risponde lo so Vi, ci sono, e per dieci o venti colpi andiamo insieme, proprio insieme, col ritmo perfetto e il respiro identico e la barca vola su questa acqua di ferro sporco, per dieci o venti colpi dimentichiamo tutto, il caldo asfissiante e le gocce di sudore che ci rendono cieche e i richiami dell’istruttore, siamo solo io e Matilde e mi chiedo perché è così difficile non farci male, perché non ci riusciamo tutti i giorni con il bene che ci vogliamo. Quando fermiamo la barca passo la mano sulla fronte, e poi sulle palpebre chiuse, mi prendo qualche secondo per togliere l’affanno dal respiro. Sento la mano di Mati che spinge sulla spina dorsale, proprio in mezzo, hai sempre la schiena curva Vi, la sento dire, e non so se cercare il coraggio di dirle vaffanculo o mettermi a ridere e dirle che le pago un ghiacciolo.
21/08/2011
Di solito sono il primo ad arrivare in spiaggia, la mattina. Passo nello spogliatoio, mi sfilo la maglietta che ho messo a casa e indosso la canottiera rossa, quella con la scritta “Salvataggio”. A volte a quell’ora passa un gruppo di ragazzi che torna da una discoteca, di quelli che vengono in vacanza per dormire di giorno e provare a scopare di notte, io li guardo e con le buone gli dico di tornare nella loro pensioncina a due stelle perché non voglio casino, la mattina presto è la perfezione mandata da Dio in terra e non voglio farmela rovinare da quattro stronzetti che non sanno chi era Bukowski.
Non succede mai niente, qui. E a me va bene così. L’acqua è troppo bassa perché qualcuno possa affogare, tutto quel che devo fare è guardare il mare piatto e opaco e controllare che nessuno dia fastidio a nessun altro. Mi siedo dietro i miei occhiali da sole, saluto, come va signora Laura, guardo le coppie male assortite che camminano da destra a sinistra e poi da sinistra a destra, faccio il giudice nella gara tra due ragazzini a chi fa il tuffo più bello con rincorsa dalla prima fila di ombrelloni, aiuto la vedova di Saronno a infilare il braccio che non può essere bagnato dall’acqua salata in una specie di custodia trasparente che assomiglia a un gigantesco sacchetto per il freezer. Sotto il mio ombrellone si fermano in tanti, e io ho una parola per tutti: il calciomercato, la politica, le vacanze dell’anno prossimo o di quello passato, il ristorante dove andare a mangiare la sera. Ogni tanto mi fermo a fissare questi tipi pieni di tatuaggi e vorrei chiedergli dov’è la balena bianca, poi penso che il senso del ridicolo è relativo come quasi qualsiasi altra cosa nella vita, e allora lascio perdere. Capita che mi sorprendo a fissare queste bambine di due o tre anni, e le vedo tutte bellissime, con i loro ricciolini e la piccola pancia buttata in fuori, gli occhi grandi e quella risata di gola dei bambini piccoli, sono magnifiche come i quadri dei musei, poi mi risveglio e guardo le donne che passano sul bagnasciuga, allora mi torna in mente mio nonno che mi diceva sai, le tedesche quando hanno quindici anni sono belle che tu ci perdi la testa, ma quando arrivano a trenta sono tutte sfatte, sarà la birra che bevono, e allora io penso che qui sono tutte tedesche, chissà cos’è che ha rovinato quelle bambine bellissime, chissà cos’è che le rovinerà. Ogni giorno si ferma qualche ragazza che ci prova, se stai in un villaggio turistico c’è l’animatore, qui in spiaggia c’è il bagnino. Quelle che preferisco sono quelle che dopo cinque minuti mi chiedono se ce l’ho una ragazza, così posso dir loro di sì, anche se poi non continuo e non dico loro che lei non lo sa, o forse lo immagina che per me è così anche se ci sentiamo un paio di sere alla settimana e io le chiedo che tempo fa lì su al nord dove abita e lei ride e dice che fa caldo come qui, poi a volte mi saluta un po’ imbarazzata perché deve uscire con degli amici e io le dico ciao, buona serata, e poi vado a farmi un’altra doccia perché mi viene da piangere.
Vicino alla mia seggiola sta la barca a remi, rossa con il nome del bagno scritto in vernice bianca. Non l’ho mai usato, non ce n’è mai stato bisogno. Però la sera, prima di tornare a casa, vado nella palestra di un mio amico e mi faccio mezz’ora di esercizi perché voglio essere sempre pronto, e capita che mentre sto facendo i bicipiti mi immagino la scena, cento persone in riva al mare con il fiato sospeso mentre io volo sull’acqua facendo mulinare i remi fino a raggiungere quel bambino che Dio solo sa perché è lì, da solo, ma non importa, ormai sta per annegare e invece arriva l’eroe che lo salva. Però non succede mai niente qui, e anche quest’anno passerà senza mai aver usato la barca, e i remi. A me va bene così.
08/08/2011
Si avvicinò alla curva del sentiero camminando lentamente, passando gli occhi dalla punta degli scarponi alla cresta delle montagne grigie. Aveva la testa vuota, nessun pensiero, nessun sentimento. Proprio di fronte a sé vide la nuvola, in corrispondenza di una delle cime della catena. Dapprima non vi fece caso, era una delle cento forme di panna di quella giornata magnifica, mutevoli e brillanti come aveva visto nei cieli del Nord Europa. Poi la fissò con più attenzione, sorrise guardandone la sagoma, identica a quella vista in cento brutti film e mille documentari, un fungo piantato sulla vetta di una montagna. Quando arrivò alla curva del sentiero gli si aprì davanti agli occhi il panorama intero della catena montuosa, centinaia di chilometri di spuntoni e colli e valichi. La nuvola a forma di fungo stava sempre lì, più grande di tutte le altre, e ferma, immobile. Si fermò anche lui. Da una tasca dello zaino estrasse una borraccia. Mentre se la portava alla bocca vide un punto nero che si muoveva, uscendo dalla nuvola e puntando verso l’azzurro del cielo terso. Strizzò gli occhi, e vide che era un aereo.
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