Margherite bianche
La incontro ogni giorno, alla stessa ora, nello stesso punto. E’ elegante di quell’eleganza dura da manager, alta, i capelli biondi corti, e un’espressione concentrata che io, da dietro i finestrini della mia macchina, non riesco a capire se sia tagliata con una dose di tristezza o una di malinconia. Ogni mattina che Dio manda in terra, io vado in ufficio e lei va al cimitero, una piccola ventiquattrore di cuoio in una mano e un piccolo mazzo di margherite nell’altra. E’ una di quelle cose che ti aspetti da una persona anziana, da qualcuno che ha abbastanza tempo e abbastanza vuoto per incagliare le lancette del proprio orologio su una visita maniacale e abitudinaria: e invece lei avrà forse quarant’anni, e in quella borsa sono sicuro che tiene una decina di biglietti da visita sui quali è riportata una mansione altisonante, e sono altrettanto certo che al suo arrivo in un ufficio di un palazzo del centro storico la attendono riunioni e documenti e videoconferenze e tramezzini mangiati di corsa senza avere nemmeno il tempo di alzarsi dalla scrivania. Mi chiedo di chi è la tomba che va ogni giorno a visitare in questo cimitero di periferia, di cui io ho scoperto l’esistenza solo qualche mese fa, un genitore, un marito, un figlio che forse frequentava la scuola elementare che sta più avanti, trecento metri sulla destra. Mi chiedo se piange ancora, oppure se si fa riempire dal silenzio che in questo lontano angolo di Milano si riesce ancora a sentire alle nove del mattino. Mi chiedo perché i fiori sono sempre e implacabilmente delle margherite bianche. Mi chiedo perché, senza conoscerla, senza sapere nulla della sua storia, ogni mattina mi sento triste per lei.