Telefonami tra vent’anni
Qualche settimana fa ho cambiato lavoro. Per uno degli scherzi della vita sono tornato in un’azienda nella quale avevo già passato sette anni di vita e dalla quale ero andato via otto anni fa. Con l’età può succedere: si cammina per un sacco di tempo, gira qui, gira lì, gira ancora e a volte finisce che ti ritrovi in un posto dove eri già stato, un posto dove le cose sono uguali e diverse. Un po’ come te. Una delle cose che sono cambiate è la tua rubrica, che non ti ha abbandonato mai, è passata di telefono in telefono, di azienda in azienda, di account in account, di trasloco in trasloco.
Ci sono momenti, come questo, nei quali la riprendi in mano (cioè ti metti davanti a uno schermo scrollando in su e in giù) e fai il punto. Colleghi nomi a facce, facce a ragioni sociali o classi di liceo. Da quanti anni non vedo A, da quanti non sento B, C sono sicuro che non sta più lì, è andata a Londra, devo aggiornare il record, questo D non mi dice niente, che strano. Così per duemila volte, incluse un paio di pause per amici che non ci sono più e non hai avuto cuore di cancellare da quell’elenco, come se quella riga fosse una microscopica lapide del tuo personale cimitero. Arrivato alla fine ti fermi un attimo per pensare e adesso da dove comincio, e come Marta Algor Gacho ti rispondi da dove bisogna sempre cominciare, dall’inizio. Così riprendi da lì, dalla rubrica: ciao come stai, hope this finds you well, sono tornato in X, sentiamoci, vediamoci, best regards. Poi vai avanti, con gli indirizzi che non esistono più e i che bello risentirti, ed è in quel momento che senti che l’unico patrimonio vero sul quale puoi contare non è quello delle cose che sai fare ma è quello delle persone nelle quali hai lasciato un buon ricordo di te, quelle che quando suona il telefono racchiudono una vita in un istante densissimo dicendo oh ma è lei, dai sei tu, quanto tempo, che piacere.