“Sono vivi ma tu non lo senti”
Oggi è il giorno che sul calendario sta a ricordare i morti. Tutti, senza distinzione: i morti come categoria, tutti quelli che non sono più qui; poi ognuno ha le sue date, i suoi anniversari, ai quali è più o meno legato, e lì diventa una faccenda privata e come tale da chiudere prima ancora di aprirla.
Ma, tornando a quella che qualcuno chiamerebbe la dimensione collettiva: c’è una cosa alla quale ho fatto caso al ritorno dalla Bosnia, e in particolare da Sarajevo. Spesso, molto spesso, i nostri cimiteri stanno “fuori”. Fuori dai paesi e dalle città. Magari al loro limitare, in periferia o in quelle zone che sono una specie di terra di nessuno fra le case dei vivi e le campagne, dove queste resistono (certo, se ne trovano che stanno “in centro”: quando succede, o sono cimiteri monumentali, che quindi celebrano le grandezze delle città attraverso l’esaltazione dei suoi defunti illustri o molto ricchi, oppure sono stati inglobati dalla città che si andava a espandere verso chissà chi e chissà dove). E tutti, senza eccezione, sono rinchiusi in un recinto alto: un muro, in genere abbastanza alto da impedire la vista dall’esterno, che separa l’aldilà dall’aldiqua. E infatti diciamo che andiamo a trovare i morti: prendiamo, usciamo dalle nostre case, ci incamminiamo o più frequentemente saliamo in macchina e ci spostiamo appositamente, proprio per quel motivo.
Sarajevo, dicevo. La prima cosa che ho visto di quella città meravigliosa è stato un cimitero, quello della moschea di Sarač Alija. Che poi era la cosa che volevo vedere: la moschea, non il cimitero, del quale non conoscevo l’esistenza. Mi ricordo che ci sono finito praticamente dentro, due passi prima non si vedeva nulla e due passi dopo avevo gli occhi a un metro dal nome inciso nel centro esatto della prima stele, che come tutte le altre era vicinissima alla strada, dalla quale veniva separata solo da una ringhiera e bastava allungare la mano per toccarla. Mi hanno spiegato che i musulmani bosniaci avevano l’abitudine di costruire i loro cimiteri vicino agli incroci delle vie, nel centro dei quartieri o intorno alle moschee così da ricordare la transitorietà della vita mentre la attraversavano muovendosi nel disbrigo dei loro affari. Dopo averlo saputo mi sono detto che forse è ancora così, forse lì è rimasto questo volersi tenere la morte come parte integrante della vita senza averne paura, senza desiderare di allontanarne il fantasma perché quello di Sarač Alija e tutti gli altri cimiteri che ho visto a Sarajevo – e sono stati molti, piccolissimi ed enormi – sono incastonati fra vie e case come lo sono le botteghe e i parcheggi, i luoghi di tutti i giorni: esci sul balcone e vedi il cimitero, vai a comprare il pane e se allunghi la mano puoi toccare le lapidi. Ci ho ripensato oggi, in questo giorno che per me è sempre un po’ strano perché qui non ho morti da andare a trovare se non quelli della famiglia allargata che ho avuto la fortuna di contribuire a costruire, mi sono chiesto se c’è un rapporto fra il nostro voler allontanare i cimiteri dai nostri occhi e il contemporaneo renderli dei tripudi celebrativi, vere orge di statue, piante, colori, fotografie, dediche, pupazzi, luci che dicono moltissimo dei vivi e ben poco dei morti ai quali sono apparentemente dedicate. Ci ho ripensato guardando una foto di quelle stele, tutte uguali tra loro, bianche, alte, con il nome e gli anni di nascita e morte incisi sopra quello struggente versetto del Corano, identico per tutti, che recita “E non dire di quelli che sono morti sulla via di Allah: ‘sono morti’. No, sono vivi ma tu non lo senti”.