Piccola lezione di umiltà
Succede che scrivi senza pensarci su più di tanto, butti giù 670 parole rileggendole velocemente giusto per non lasciarci dentro troppe ripetizioni, poi clicchi “Publish” e ti dedichi ad altro.
Succede che qualche ora dopo realizzi di aver scritto una frase che ha lasciato un segno un po’ meno effimero del solito – qualcosa che arriverà a domani, cosa che in questi tempi di social network parolai è davvero grasso che cola.
Succede che quella frase (“Non ha fatto carriera ma non se ne è mai fatto un problema, perché per lui il lavoro era ciò che forse dovrebbe essere davvero per chiunque, qualcosa che ti permette di uscire a bere con gli amici senza obbligarti a chiedere i soldi a tua madre, e poi ti consente di farti una casa, magari di sposarti, comprarti un’utilitaria per andare a fare una grigliata in riva al Ticino, far studiare i figli, avere qualche hobby, arrivare al venerdì sera stanco ma con la mente sgombra: uno strumento per essere dignitosamente felice, insomma; o almeno per scansare la fame.”) non è quella nella quale hai creduto di aver messo il meglio, di essere stato più netto e soprattutto sincero (“un’espressione non felice ma rilassata, appena velata dalla malinconia datagli dal pensiero della figlia minore che non riesce a rimanere incinta.”) e ancora una volta ti rendi conto che il senso alle tue parole non lo dai tu, ma lo danno gli altri, il che – a ben vedere – è una bella lezione di umiltà.
March 2nd, 2009 at 16:07
Faccio un parallelo col teatro: nella mia limitata esperienza, le battute che a me e ai miei colleghi sembravano funzionare di più erano anche quelle che lasciavano il pubblico più indifferente, mentre, viceversa, le battute a cui il pubblico rispondeva meglio non erano fra le preferite degli attori.
(ho ripreso quella frase su Tumblr perché sento molto mio il concepire il lavoro come un mezzo e non come un fine – poi gli alfieri del “devi lavorare almeno quattordici ore al giorno, sennò sei uno sfaticato” mi guardan male, ma tant’è)
[Chettimar]