C’ero anch’io, quella sera di tre anni fa, al Teatro Litta ad ascoltare Luca che intervistava Lorenzo Cherubini in arte Jovanotti. E ricordo di essere stato anch’io colpito da quel suo racconto, non perchè speciale e unico, ma proprio per il motivo opposto – per essere un racconto nel quale quasi chiunque si poteva riconoscere: si stavano succedendo le solite dichiarazioni di politici davanti alle servili telecamere del Tg, e scorato dalla loro inconsistenza e pochezza, Lorenzo si trovò a dire ad alta voce: “Sono tutti uguali…”. E subito si batté una mano in fronte preoccupato: “Che ho detto…”.
In questi anni mi sono spesso venuto a noia, rendendomi conto di aver progressivamente perso le speranze in un futuro migliore per questo paese e, di conseguenza, per me e per le persone alle quali tengo, aggiungendo alla disillusione il lamento e il borbottìo. Avrei voglia di essere capace di dire una frase come quella che suggerisce Luca al termine del suo post di ieri – “non siamo mai stati un grande paese, ma cominciamo a esserlo” – ma so che suonerei falso a me stesso, e quindi a chiunque avesse la discutibile fortuna di ascoltarmi. Mi vergognerei, in buona sostanza; ma questo sarebbe il meno. Il fatto è che mi sono vergognato, mi vergogno e mi vergognerò anche per conto terzi, ascoltando questo e quel presunto leader sostenere un concetto simile: semplicemente, perchè ho in orrore le bugie smaccate. Non solo non siamo un grande paese: non possiamo esserlo. Ne siamo costituzionalmente incapaci, ci mancano i requisiti: a tutti e a ciascuno.
E allora, che si fa? Ci si arrende?
Beh, sì. Sì, ci si arrende. Io è un po’ che ci penso. So quali sono i miei limiti, limiti privati e limiti pubblici. Mi guardo intorno, e senza nessuna soddisfazione trovo che quei limiti sono largamente diffusi. Stiamo socialmente scivolando nel baratro, e quando pensiamo di aver toccato il fondo ci mettiamo a scavare. L’unica cosa che possiamo fare è provare a cadere senza farci troppo male, è provare a rallentare la discesa. Arriverà un momento in cui la situazione si farà insostenibile, nel quale la catastrofe non solo sarà inevitabile ma sarà avvenuta, realizzata, completata: oggi l’Enola Gay ha sganciato la bomba e questa sta cadendo, ma domani, o dopodomani, o fra cinque anni quella bomba farà boom. Ecco, a me tutto sommato interessa poco schiantare colpito dall’atomica che ci siamo costruiti con le nostre stesse mani; mi interessa che non ci rimetta mia figlia, e questo potrà avvenire solo se lei non sarà qui, solo se lei sarà – sola, senza di me, senza sua madre – da qualche altra parte, se non si troverà ad Hiroshima o a Nagasaki ma in un altro posto, al sicuro. Spero di avere il tempo per fare quello che c’è da fare perchè ciò avvenga, spero che la bomba esploda dopo che lei abbia avuto il tempo di capire, e prendere la decisione di andarsene. Sto contribuendo a preparare le cose perchè facciano così schifo che lei non veda altra soluzione per se stessa che prendere e scappare, sto creando il peggio perchè lei goda il meglio. Mors mea, vita tua – good night, ang good luck.
Wittgenstein