Fuori tempo
La mattina di un giorno feriale di una famiglia media italiana – almeno di quella “tipo Mulino Bianco”: madre, padre e uno o due figli – è un gioco ad incastri, nel quale tutti hanno i minuti contati anche per l’ozio. Una cosa tipo Chaplin in “Tempi moderni”, solo un po’ più lenta, ma nemmeno di tanto. Il microcosmo familiare crea un suo proprio equilibrio, efficace e fragilissimo, basato sul rigoroso rispetto del proprio ruolo da parte di ciascun membro – quello che si sveglia per primo, quello che non esce mai dal bagno, quello che fa cadere la tazza del latte: se uno sgarra, tutto va a rotoli.
Ora, per motivi qui irrilevanti, durante le ultime due settimane mi è capitato spesso di sgarrare: uscite ritardate, lavoro casalingo, cose così. E insomma, sono diventato il granello di sabbia che fa saltare l’ingranaggio. Mia moglie e mia figlia vanno spedite, non perdono un colpo: io, che di solito esco di casa quando la Persona Corta sta ancora dormendo e l’Azionista di Maggioranza inizia a sbrigare le sue faccende, mi rendo conto dell’esistenza di una vita a me prima ignota, fatta di gesti e movimenti codificati che capisco sempre un attimo dopo, nel malcelato disappunto della componente femminile della famiglia: vado contromano in corridoio, metto via una ciotola che invece serviva, apro le ante dell’armadio impedendo il passaggio a mia moglie, e così via. Quando posso, vado a sedermi sulla poltrona dello studio e le guardo, e sembrano Fred Astaire e Ginger Rogers (anche quando una grida all’altra di muoversi, e l’altra risponde all’una che ha già fatto, e in effetti sembrano anche Lemmon e Matthau, a ben vedere); loro vanno a tempo di swing, e non sbagliano un passo. Io accenno un minuetto, e le faccio inciampare.