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    17/11/2011

    “Se dovete fare una scelta ascoltate, non applaudite”

    Filed under: — JE6 @ 15:08

    Ho appena finito di ascoltare Mario Monti che illustrava ai senatori le cosiddette linee programmatiche del suo governo. Mi sono piaciute molte cose e piaciute meno altre, ma nel tempo ho imparato che non si può aver tutto dalla vita, e quando hai abbastanza è già molto, molto meglio di niente. Comunque. Mario Monti è il presidente della Bocconi, e in questi giorni – soprattutto quando i nomi dei futuri ministri erano classificati alla voce “si dice -indiscrezioni” – si è fatta tanta ironia su questa università e sulle sue persone. Non sono mai stato animato da un particolare spirito di corpo, non venero l’Alma Mater come gli ex studenti di Harvard e di Stanford, non ho mai partecipato alle riunioni e alle iniziative degli alumni. Non mi ritengo sospettabile di pregiudizio positivo, insomma. Ma poco fa, seguendo l’andamento lento delle parole del nuovo PresDelCons, l’uomo che dice “se dovete fare una scelta ascoltate, non applaudite”, mi sono sentito a casa, un po’ come cittadino e un po’ – va bene, sparate pure – come bocconiano. L’anno scorso ho scritto questa cosa che riporto qui sotto, e che oggi ripesco. Poi, che io oggi (almeno per i prossimi venticinque minuti) mi senta orgoglioso e rasserenato e vaghissimamente fiducioso non lo considero un buon segno, ma un segno dei tempi – che sono quelli che sono: grami. Ma questo è un altro discorso.

    Era un giorno dell’autunno del 1985, quando entrai per davvero in Bocconi per la prima volta. Ci ero stato qualche tempo prima per il test di ammissione, ma quel giorno non contava, nessuno di noi aveva tempo e voglia di guardarsi intorno e di illudersi o deprimersi all’idea che superando quell’esame avremmo passato i successivi quattro o cinque o sei anni fra quelle mura. Ma il primo giorno vero, ecco. Non avevo ancora diciannove anni, venivo da un quartiere di periferia sconosciuto alla maggior parte dei milanesi (e la minor parte che lo conosceva lo considerava un dormitorio), non avevo fatto il liceo ma un normalissimo e plebeissimo istituto tecnico commerciale. Ricordo perfettamente che mi fermai di fronte all’entrata dell’università e pensai: “Oddio”. Sono sempre stato abbastanza bravo a mascherare la paura dei posti e delle persone nuove, e a fingere di non sentirmi inadeguato e fuori posto: così mi feci forza ed entrai come se niente fosse. Non ci sarebbero state cerimonie di iniziazione, atti di nonnismo e mortificazioni da scuola vittoriana, questo lo sapevo. Ma erano gli anni della Milano da bere, e non bastava la macchietta disegnata – male – da Sergio Vastano negli sketch di Drive In a prendere sufficientemente in giro quella terrificante armata di non ancora ventenni vestiti come i funzionari di Publitalia – blazer blu con bottoni dorati, pantaloni grigi e scarpe di cuoio inglese, la ventiquattrore rigida e una copia del Sole24Ore sotto l’ascella. Non ci volle moltissimo a rendermi conto che nel tempio dell’educazione capitalista italiana c’era un sacco di gente del tutto “normale”, gente che votava a sinistra – professori e studenti senza distinzione -, gente che usciva a fare due passi per mangiare un panino e tirare due colpi di cinque birilli nella Cooperativa Stella Alpina, gente con famiglie monoreddito, gente che potevi trovare da Buscemi a cercare qualcosa dei Clash. Non ci volle nemmeno moltissimo a rendersi conto che il censo fa differenza, talvolta per educazione, sempre per usi e costumi; lo sforzo più grande di quel primo anno fu non farsi travolgere né dai nomi altisonanti che potevi incontrare in biblioteca o al corso di sociologia di Nando dalla Chiesa né dal desiderio di assimilazione né dall’orgoglio proletario – e se ci riuscii, se ci riuscimmo tutti (o quasi) non fu tanto per merito nostro di giovani pivelli saltabeccanti tra la teoria della concorrenza perfetta e il calcolo degli integrali, bensì per merito di un sistema che ci trattava da pari, o almeno ce lo faceva credere. Avremmo avuto poi tutto il tempo del mondo – il resto della vita – per capire che le conoscenze contano quanto le capacità, che le barriere invisibili sono molto più difficili da superare di quelle ben indicate, e che l’erba del vicino – la vita degli altri, insomma – sembra sempre drammaticamente più verde e brillante: intanto potevamo tentare un tre sponde col taglio a tenere, e tornare a casa in metropolitana senza sentirci né degli eletti né dei paria, e oggi questo non mi sembra poco.

    One Response to ““Se dovete fare una scelta ascoltate, non applaudite””

    1. Stella Says:

      Equilibrio nelle posizioni e giusto confronto tra le parti. Ma quale posizione assunse veramente, quello dello studente chino ed attento allo studio e tutto il resto è contorno? Ovviamente non è una critica, ma una curiosità!

      Una volta, credo di aver letto tra i suoi racconti qualcosa sulla linea nera da seguire, quella maledetta linea nera e mi piacque molto. Oggi ero in piscina e la mia amica mi ha fatto percorrere senza sosta i 50 mt. circa 30 volte, che per chi è allenato sono bazzecole, ma io non lo ero ed era la mia prima volta dei 50 Mt. anche con una sola vasca! Ebbene, nello sforzo e senza fiato ed ero alla 8° vasca, notai quella maledetta linea nera, ho ritrovato il fiato ed energia, così ho finito le mie 30 vasche. Grazie, i suoi racconti mi piacciono molto!

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