Reverse benchmark
Un po’ per il lavoro che faccio facevo, un po’ per pura esperienza quotidiana, mi sono abituato a trattare con il massimo scetticismo le opinioni della gente che conosco e a (tentare di) respingere l’idea che esse siano rilevanti e diffuse; perché se fosse per loro, per quelli che conosco e frequento e ascolto o leggo, il governo Letta avrebbe il tre per cento di gradimento, il Milan sarebbe una grande squadra, non esisterebbe un lunedì senza The Newsroom, il PD sarebbe un partito quantomeno di centrosinistra (o, a seconda dei giorni, di destra liberista fuori tempo massimo), il Corriere venderebbe due o trecento copie e tutte in zona Solferino-Moscova, i Massimo Volume sarebbero primi in classifica, cose così. Non che quelle opinioni o quei gusti siano sbagliati, anzi (oddio, si fa per dire, l’elenco l’ho truccato un po’, ci sono non meno di tre voci buttate lì solo per il gusto della caciara); se vogliamo il problema è proprio quello, il pensare pigramente che, considerandoli giusti, siano perciò condivisi e quindi rappresentativi: il che si rivela, ogni volta, una fregatura di proporzioni colossali, o almeno pari a quelle dell’illusione che l’ha generata. E così sto lavorando sulla soluzione definitiva: prendere ciò che sento e che mi pare giusto e condivisibile come una specie di reverse benchmark, eliminando al tempo stesso le categorie di buono e cattivo, di giusto e sbagliato. Così prima o poi un’elezione, un Emmy, un campionato lo vinco anch’io.