Pausa pranzo
Qualche sera fa mi sono guardato su YouTube uno speech che Vittorio Munari ha tenuto a una convention aziendale. Munari è stato un grande allenatore di rugby e oltre a fare il commentatore televisivo rimpingua il conto in banca girando per aziende a spiegare cos’è una squadra, come ci si sta dentro, cosa significa vincere e cosa vuol dire perdere, cose così. Uno dei perni dei suoi discorsi è l’automotivazione: la spinta che uno ha dentro per dare il massimo di sé e dare il massimo che può agli altri. Tutto bello e tutto giusto, se non fosse che non ti spiega dove dovresti fissare la tua asticella, quale dovrebbe essere il tuo punto di equilibrio, ché non è facile dare il famoso centodiecipercento e poi avere ancora tempo e energie e testa per ciò che sta fuori dalle mura dell’ufficio; e se quell’asticella sbagli a metterla, se quel punto di equilibrio è invece sbilanciato hai voglia a riempirti la testa di belle teorie e messaggi motivazionali, intanto sei solo diventato un altro soldatino dell’immenso esercito dei burnt-out. E niente, pensavo a quel discorso che Munari faceva a venditori e amministrativi e capiarea e direttori di business unit, ci pensavo mentre all’una e mezza di un giovedì pomeriggio percorrevo la via che a Pesaro taglia il centro storico passando per chiese e musei e piazze in attesa di presentarmi al secondo appuntamento della giornata, e guardandomi intorno, riconoscendo posti che ormai conosco come un indigeno – la via che porta alla sinagoga, le centinaia di piccole fotografie in bianco e nero del monumento ai caduti, il palazzo delle poste, il piccolo arco che porta a un panettiere e un macellaio – non riuscivo a togliermi di dosso il sorpreso e malcelato fastidio del trovare nove negozi su dieci chiusi per la pausa pranzo, ci pensavo cercando di capire se è il problema del vivere e lavorare a Milano, se sono io, se siamo noi, se sono loro, ci pensavo e mi veniva da dire beh Vittorio, mi stai simpatico e sono contento se ti pagano bene per non dire niente che non mi avessero già spiegato i miei genitori quando avevo dodici anni, ma le cose sono più complicate di così, lo so io e lo sai tu, e chissà, forse trovare il modo per restare in superficie, per girare intorno a un ostacolo senza scavalcarlo, per far credere di aver dato una risposta a una domanda che tutti si fanno senza riuscire a darsi una soluzione, forse trovare quel modo è quello che serve. O forse no, ma non sono io quello che fa gli speech alle convention, qualunque cosa questo voglia dire una volta tradotto in italiano.
June 25th, 2017 at 21:42
Pensa,
quasi per caso mi sono letto questo tuo post, e le coincidenze della vita vogliono che io stia lavorando ad una nuova startup per “costruire” borghi in giro per il mondo. E quello che dici del camminare, dei negozi, eccetera, é nella mia testa da un po’ di tempo. E sto cercando di capire come “disegnare” il borgo perfetto senza renderlo fasullo e artificiale.
June 29th, 2017 at 11:27
@simone. mi accosto a questo blog da anni e non per caso. Mi permetto un modesto suggerimento. Un nuovo borgo sarà artificiale, non possiamo farci nulla. Pensa ai Romani. Quanti nuovi borghi bellissimi, razionali e funzionanti hanno creato. Credo che non si possa fare meglio.