La signora-bene
La signora-bene non usa la metropolitana come noi comuni mortali: piuttosto, la onora della sua presenza. Potrebbe chiamare un taxi, e spendere venti euro per andare dal suo appartamento di Santa Maria delle Grazie – tutto stucchi e domestiche e libri di antiquariato – al negozio di scarpe dove la conoscono da una vita ma le danno ancora del Lei; ed è quello che fa di solito. Ma una volta ogni tanto la signora-bene sente un sussulto, ricorda la sua infanzia nella Milano delle macerie e dei cani randagi, e torna in mezzo alla gente. Percorre decisa ed elegante i duecento metri che la separano dalla fermata della linea rossa, scende gli scalini, va all’edicola, compra due biglietti, aggiunge per pura abitudine il Corriere della Sera. A quel punto, la signora-bene infila i guanti. Guanti che costano quanto il mio vestito di fresco lana comprato da Conbipel, e il resto mancia. Ha qualche secondo di smarrimento, perchè sono cambiate le macchinette obliteratrici e lei non sa qual è il verso giusto di inserimento del biglietto: chiede al controllore di stazione di aiutarla, con un tono a metà tra il seccato, il gentile e il condiscendente, e una volta risolta la scocciatura si mischia con le altre centinaia di passeggeri. E’ difficile non notarla: avrà una settantina d’anni ma ne dimostra almeno dieci di meno, potenza delle cure estetiche e di una forza di volontà che noi applichiamo solo alle bottiglie di birra con le quali ci sbronziamo il venerdì sera; veste di quell’eleganza sobria e costosa dei borghesi veri, i borghesi nell’animo, non importa se nati poveri; non si siede anche se c’è posto perchè i sedili non brillano di pulizia e non si può non vedere che la mettiamo a disagio, noi operai e insegnanti e ferrovieri e impiegati di banca e cassintegrati e segretarie, non si può non vedere che fa in modo di tenersi a distanza, non si può non vedere che osserva i nostri giacconi sintetici, le nostre scarpe made in China, i nostri orli scuciti, i nostri capelli sfuggiti allo shampoo per la troppa fretta di una mattina passata tra bambini da accompagnare a scuola, chiavi dimenticate in un cassetto e caffè preparati con macchinette da cinquantanove euro e novanta. Non c’è nessuna affettazione nei suoi modi, non c’è sussiego nè ostentazione: solo, non siamo tutti uguali, e non possiamo esserlo per dieci minuti passati gli uni a fianco degli altri su un vagone della tratta Sesto F.S. – Rho Fiera. La guardiamo scendere, i capelli castani in perfetto ordine e i guanti – gesucristo, i guanti – che toglierà quando sarà tornata in superficie. E la dimentichiamo subito, pulendoci un’unghia o tornando a leggere le pagine dello sport di un quotidiano gratuito che butteremo per terra quando saremo arrivati a destinazione.
March 7th, 2009 at 14:53
“di una forza di volontà che noi applichiamo solo alle bottiglie di birra con le quali ci sbronziamo il venerdì sera” è un pensiero straordinario: chi siete, quanti siete, ogni venerdì o solo alcuni, poi cosa fate? Una frase e spalanchi una marea di ulteriori domande.
Un po’ come il jazz.