Cose/1
È come il giorno che cammina
come la notte che si avvicina
come due occhi che stanno a guardare
da dietro una tenda
e non si fanno notare.
Non ricordo quando è stata la prima volta che l’ho vista. Io stavo ancora ciondolando da una parte all’altra della casa, una tazzina di caffè in una mano e la sigaretta nell’altra, in pigiama, aspettando che i sensi di colpa fossero abbastanza forti da costringermi a sedermi alla scrivania e buttare giù “i contenuti” che questo o quel cliente mi avrebbe pagato, forse, sei mesi dopo. Lo so perché è quello che faccio ogni giorno da quando accidia e riorganizzazioni mi hanno portato nel mondo incantato del terziario a partita IVA. So che stavo alla finestra, guardavo lo scarso traffico delle nove del mattino di questa via strana nella quale sono venuto ad abitare un annetto fa. Strana, perché è centrale e periferica al tempo stesso, come certe strade di Manhattan che le percorri da cima a fondo e ad un certo punto ti rendi conto del silenzio che c’è. A Manhattan. Forse pensavo agli ambulanti del mercato rionale che stanno a una manciata di palazzi da qui, che da ore avevano già messo sulle bancarelle arance e maglioni. Non lo so. So che l’ho vista uscire dal portone del palazzo di fronte, e l’ho seguita con lo sguardo fino a una macchina vecchia e sporca parcheggiata precariamente sotto un albero, l’ho guardata entrare, sedersi, partire, e mi è sembrato che nel momento in cui ha girato le chiavi dell’accensione le si sia alzato il petto come per un sospiro, come se si stesse facendo coraggio. Non lo ricordo, ma so che l’ho pensata per tutto il giorno, senza un motivo. Ricordo bene invece che mi sono ritrovato ad aspettarla verso le sette di sera, immaginando che quello potesse essere un buon orario per il suo rientro, e lei invece non è arrivata. Da lì in poi ricordo tutto, la mattina successiva e quella dopo e quella dopo ancora, stesso orario; quello che cambiava era il suo vestito, il resto era tutto uguale, il mio pigiama, la mia sigaretta, il mio caffè. Ogni sera mi avvicinavo alla finestra con la scusa di una pausa, o del meritato riposo dopo una lunga giornata di “contenuti”, cercando di capire quale fosse l’ora del suo rientro. Senza riuscirci. Ricordo che è arrivato il weekend e mi sono imposto di non pensarci, di non pensarla, vergognandomi un po’ di quelle giornate che avevo passato tenendo un pezzo di cervello separato da tutto il resto in attesa della sera che si avvicinava. Da allora credo che siano passate un paio di stagioni, ho cambiato il pigiama ma tutto il resto è rimasto uguale, i suoi capelli neri e l’espressione assorta e il sospiro che fa nel preciso istante in cui accende la macchina, il mio caffè, la mia sigaretta e quel pezzo di cervello che la aspetta. Non ha mai alzato lo sguardo verso il terzo piano del palazzo di fronte al suo, quello dove abito io, nemmeno per caso, per sbaglio, per seguire con gli occhi un’ape o una nuvola. Non mi avrebbe visto, perché sto dietro una tenda, ma avrei potuto vederla io, guardare per un secondo i suoi occhi. A volte penso a quando questo succederà, perché se ho rinunciato a vederla rientrare a casa, e su questo ho creato un milione di fantasie sul lavoro che fa, e dove sono il suo ufficio e il supermercato nel quale si ferma a fare la spesa, e la palestra dove va con due colleghe a fare shiatsu o pilates e il biglietto sul quale l’istruttore le ha scritto un numero di telefono da chiamare quando vuole, se ho rinunciato a tutto questo non ho rinunciato a sperare di vederla davvero, il giorno che alzerà il volto verso la mia tenda tirata.