Generale la guerra è finita
Generale, la guerra è finita
il nemico è scappato, è vinto, battuto
dietro la collina non c’è più nessuno
dolo aghi di pino e silenzio e funghi
buoni da mangiare, buoni da seccare
da farci il sugo quando viene Natale
quando i bambini piangono
e a dormire non ci vogliono andare
Ho una foto, salvata nel telefono. Ci sono io, stretto nella mia t-shirt dei Pink Floyd, a fianco di Jovan Divjak. Lui ha la stessa espressione vista migliaia di volte, un misto di serietà e tranquillità e fiducia che si riesce incredibilmente a ritrovare anche in tante immagini degli anni dell’assedio di Sarajevo, anche in quelle scattate nei momenti più difficili. Io: beh, io ho il sorriso vagamente incredulo di un ragazzino che si ritrova a dieci centimetri da una rockstar planetaria (e già il fatto che sorrido in una fotografia, sì, è abbastanza eccezionale). Mi aveva portato al suo cospetto Asim pochi minuti prima: “Generale, le presento un nostro amico italiano che vorrebbe tanto salutarla” e lui era stato cordiale, mi aveva stretto la mano con quella benna che aveva stretto mitra e accarezzato bambini, mi aveva parlato in italiano, mi aveva detto che sarebbe venuto a Milano qualche mese dopo.
Di quei pochi minuti nel centro della Baščaršija di Sarajevo ricordo la sensazione di solidità della sua persona e soprattutto il fatto che i passanti si fermavano a decine a salutare, chi gli diceva grazie e chi lo toccava sulla spalla come se fosse una reliquia vivente e lui rispondeva a tutti, a tutti faceva un cenno o rivolgeva un saluto o un ringraziamento. Ancora oggi, dopo quasi due anni, mi capita di ripensare a quel momento realizzando che non sono mai stato così vicino a una manifestazione di affetto e riconoscenza come quella alla quale ho assistito in quel giorno di agosto in Bosnia. Un amico mi ha scritto poco fa: “Stavo leggendo un po’ di social e news sulla morte di Divjak. E’ impressionante. Non credo che esista un altro uomo, oggi, così universalmente amato e stimato dalla sua comunità“. Erano – sono – un amore e una stima meritati: perché per quella gente, tutta, senza distinzioni di sesso, nazionalità o religione, il generale Jovan Divjak aveva rischiato tutto quello che aveva, a partire dalla vita. Non era stata una storia d’amore tutta rose e fiori, quella del generale con Sarajevo: i suoi concittadini erano molto più disposti a porgergli oggi il tributo della loro gratitudine di quanto non lo fossero stati al termine della guerra, quando venne messo alla porta insieme al generale di origine croata Stjepan Šiber, entrambi prepensionati con la motivazione della scarsa fiducia che i soldati bosgnacchi nutrivano nei confronti di ufficiali non musulmani. Ma alla fine il tempo gli aveva reso giustizia; ho passato giorni a chiedermi se io, dall’alto della mia mezza età e della mia informazione e del mio spirito critico così ben addestrato dalla frequentazione con la politica del mio paese quel giorno nel centro di Sarajevo non mi sono lasciato affascinare e incantare dalla vicinanza a un mito costruito con perizia da una delle molte macchine di propaganda che si sono talvolta affrontate e talvolta spalleggiate in quel lunghissimo, estenuante e non ancora concluso conflitto, e oggi che Jovan Divjak non c’è più continuo a sentirmi dalla parte della ragione, continuo a pensare di aver incontrato e stretto la mano a un uomo che, al netto degli errori che chiunque commette e delle decisioni inevitabilmente sporche alle quali ti costringe la guerra, ha scelto la parte giusta: o meglio, la parte della giustizia, che non è la stessa cosa anche se non ho abbastanza parole valide per spiegare la differenza: e sono contento di averlo fatto.