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La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla.
(Gabriel Garcia Marquez)

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    14/06/2010

    Greetings from New York ’10 – Ellen

    Filed under: — JE6 @ 20:26

    Mi fermo davanti a una panchina di Central Park, poco distante dal ballground. Guardo la targhetta fissata in alto, a sinistra. This bench is dedicated to Ellen – together forever. Mi immagino una di queste coppie, di quelle che si vedono qui al parco, che camminano tenendosi per mano, che si parlano tenendo una bottiglietta di acqua o di  Diet Coke, la polo bianca e i capelli argentati, compagni di liceo e poi sposi, due figli, cinque nipoti, la prima Buick, la crisi petrolifera, un nuovo lavoro, tre traslochi, la domenica mattina passata a passeggiare al parco, l’enfisema di lui, il tumore di lei, Sinatra e Barbra Streisand, resistere resistere resistere, e together forever per davvero e una targhetta di metallo su una panchina che ti ricorda che le cose stanno a te, a scegliere la persona giusta, a tenere botta, a seminare bene per provare a raccogliere altrettanto.

    Greetings from New York ’10 – Harlem, una domenica di giugno

    Filed under: — JE6 @ 18:01

    Cammino per Harlem guardando le brownstones, i parrucchieri, gli anziani eleganti con le scarpe bicolori lucide e splendenti, le perline che adornano i capelli di una donna seduta all’angolo della Centoventicinquesima, le bancarelle di profumi e di cd masterizzati – Motown Selection Vol. One – le sneakers appese a un palo della luce, due ragazzini che sfrecciano su skateboard più grandi di loro. A un certo punto sento una voce di uomo venire da un edificio, mi fermo, mi guardo intorno, e capisco che quella è la voce del pastore della Canaan Baptist Church of Christ che sta predicando, sento le sue parole e sento la gente che risponde, e sento musica. Mi fermo, entro timidamente, siamo quattro o cinque europei, ci fermiamo all’ingresso senza sapere bene cosa fare fino a quando ci fanno cenno di lasciare giù i nostri zaini e le nostre macchine fotografiche e di entrare, ed entriamo, e ci sono persone bellissime ed elegantissime, le donne vestite di bianco e gli uomini di nero e hanno tutti i guanti, e queste persone ci fanno accomodare nei banchi, dove noi siamo con le nostre t-shirt e i nostri jeans sdruciti e i fedeli invece sono vestiti di tutto punto, sono vestiti da festa perché questa è una festa, e le donne hanno questi cappelli stupendi di ogni forma e dimensione, e gli uomini hanno i loro completi con le cravatte annodate strette, ed è tutto già visto in un milione di film, ed è tutto già sentito in un milione di dischi, ma poi quando i ragazzi del coro – e saranno quasi cinquanta – iniziano a cantare “I’m a believer” e la musica è pianoforte batteria chitarra, e si riempie tutto di suoni, e la gente si alza e batte le mani, là sulla sinistra c’è una coppia, saranno marito e moglie e non hanno meno di settantacinque anni ciascuno e sono in piedi e ondeggiano a ritmo che uno pensa ai nostri concerti e pare tutto finto perché questa gente ha la musica dentro, dentro da mille anni, e tutto cresce che ti vengono le lacrime agli occhi perché hai la sensazione che facendoti entrare ti abbiano fatto un regalo, il regalo di una mezz’ora di trasporto e bellezza ed emozione, di cose che per un po’ ti fanno sentire migliore di quel che sei per davvero, di cose che ti rendi conto non sono folklore per i turisti ma sono vita – anche se la vita della domenica – e poi il pastore riprende a parlare e c’è chi risponde “Yes, man” e chi “Oh Lord” e tu vorresti soltanto alzarti e abbracciare qualcuno, qualcuno a caso – una delle donne vestite di bianco che fanno accoglienza, quell’uomo là in fondo che sembra il poliziotto anziano di Cold Case – e dirgli grazie, grazie e basta, e poi finisce, esci, cammini cinque minuti e sei davanti all’Apollo Theatre, a millemila chilometri da casa e ti senti tanto, tanto lontano, da tutto e da tutti.

    Greetings from New York ’10 – Easy as Sunday morning

    Filed under: — JE6 @ 08:20

    Alle nove del mattino di una qualsiasi domenica di giugno Central Park è la gente che corre, quella che gioca a baseball nei ballground, quella che porta ogni razza di cane conosciuta a passeggio, quella che pattina, quella che cammina, quella che si sdraia a prendere il sole già caldo, quella che il mattino ha l’oro in bocca, quella che apple cinnamon, quella che insegna ai bambini a pescare, quella che gira intorno al Reservoir, quella che gioca a croquet sotto lo sguardo basito dei curiosi, quella che legge, quella che si bacia, alle nove del mattino di una qualsiasi domenica di giugno Central Park è il verde immenso e in lontananza i grattacieli, e le fontane e i rumori attutiti come in una pausa, come per prendere fiato e provarci ancora, fra un minuto, fra un giorno, fra un mese, chissà.