In fondo alla navata
Ha il fisico tozzo dei vecchi contadini lombardi, stretto nella divisa di custode di quella grande chiesa che si va riempiendo velocemente. Avrà poco più di sessant’anni, le guance piene e cadenti di uno che da quando ne ha avuto la possibilità non ha mai smesso di compensare la fame atavica dei suoi nonni, e ancora di più la sete. Smista le persone che avanzano lungo la navata con gesti secchi e uno sguardo duro, quello che probabilmente indossa quando entra in casa, quando si fa passare la bottiglia, o il sale. Continua così per molti minuti perché i ritardatari non mancano mai, per ciascuno un libretto ben stampato e la mano che indica una panca. Poi arriva un momento nel quale tutti sembrano essere al loro posto, le voci bianche portano una musica antichissima fino in cima alle colonne di marmo, quelle delle quali non si vede nemmeno la fine persa nel buio gotico, e c’è un’atmosfera che nessuno sa definire, e in quel momento, quando non deve più guardare nessuno e nessuno deve guardare lui appoggia le spalle al marmo, e poi la nuca, e punta gli occhi verso l’alto, verso un punto indefinito, e muove le labbra come se stesse parlando a qualcuno, le muove appena appena come le donne anziane che recitano una preghiera, come un bambino che sillaba le parole che legge, in quel momento sembra debole, stanco e indifeso come nessuno lo vede mai, come non si fa vedere mai da nessuno. E’ un momento talmente breve da sfuggire a quasi tutti, così breve che lui stesso lo nasconde e dimentica passandosi una mano sul viso come a togliere una pellicola, o ad alzare una serranda.