Mare mosso senza onde
Un paio di giorni fa mi arriva una telefonata all’inizio del pomeriggio. E’ un cliente/fornitore/amico, uno di quegli ibridi che anni di lavoro creano quasi involontariamente e senza che uno se ne renda conto per davvero. Mi chiama per avvisarmi di un problema, che sembra essere piuttosto grosso. Fammi sapere, mi dice (e lo fa con il tono di chi è dalla tua parte, se posso ti do una mano: che è una cosa importante, ma è un’altra storia). Inizia una sarabanda di controlli, verifiche di tracciati, studi di soluzione, calcoli di penali. Poi uno di questi controlli fa pensare che forse l’errore non è stato fatto qui ma là, in Polonia, dove è partita la segnalazione: anzi, forse proprio non c’è un errore se non tanto piccolo da non poter essere nemmeno considerato tale. Richiamo il cliente/fornitore/amico: fai controllare questo e quest’altro, forse la mettiamo a posto, forse non c’è nemmeno nulla da mettere a posto. Passano un paio d’ore dove mi occupo di quel che stavo facendo prima della telefonata, poi squilla ancora il telefono: avevate ragione, tutto a posto, si erano sbagliati, a parte le quattro ore che abbiamo buttato via tutto è bene quel che finisce bene.
Mentre torno a casa e sono fermo a un incrocio faccio un involontario bilancio della giornata e la sensazione di scampato pericolo mi sembra essersi bizzarramente trasformata in quella di soddisfazione, come se avessimo portato a casa un successo semplicemente lavorando come forsennati per riportare il segnaposto alla casella di partenza senza alcuna penalità. Mi viene da pensare a quante energie mettiamo, tutti senza eccezioni, solo per tenere in piedi la baracca – quella professionale, quella della vita privata, quella della vita sociale: manutenzione ordinaria. Quanto lavoro c’è, quanto impegno viene profuso per far andare avanti le cose lasciandole lì al loro posto. Quanto sono agitate le acque sotto la superficie piatta dello scampato pericolo.