Sei stato bersagliato dalla sorte, S.
Fin da piccolo. Eri uno di quei bambini un po’ strani, bruttini, di quelli che non sapevano giocare bene a pallone, di quelli senza grandi doti apparenti. Poi, chissà: magari eri capace di sederti al tavolo della cucina del trelocalieservizi di periferia dove abitavi, e fare disegni splendidi che sarebbero finiti nella spazzatura od in fondo ad un cassetto solo pochi minuti dopo.
Ti prendevano in giro, quelli della tua età; e noi, un po’ più grandi, ti consideravamo persino con fastidio. I bambini, ed i ragazzi, sanno essere crudeli molto più degli adulti, si sa. Ma il peggio non era ancora arrivato: perchè lo scherno ed il fastidio si sarebbero trasformati in indifferenza, e cosa vuoi fare contro l’indifferenza se non cercare – così mi immagino, S. – di tirare avanti giorno dopo giorno cercando di evitare di pensarci troppo sopra? A quindici anni, santodio.
E poi. La bottiglia di tua mamma, e l’infarto (o il tumore, e chi lo sa: voci di cortile che riguardano uno di cui non ti importa nulla) di tuo padre. Una moglie all’età di quanto? ventidue, ventitre anni? presa non si sa come, e figlia di un’altra famiglia di quelle che occupano le portinerie delle case popolari, ed un bimbo che mi hanno detto essere bellissimo, ed oggi anche questa ragazza ti si sta spegnendo sotto gli occhi: questione di ore, ho sentito.
Io non so, S., come fai ad andare avanti. Non lo so. Non ti incontro per strada da anni, chissà che faccia hai oggi, se hai i capelli lunghi, se porti gli occhiali, se pesi qualche chilo in più. Non riesco nemmeno a ricordare quando è stato che ti ho detto ciao per l’ultima volta, non so nulla di te se non queste poche cose, so che io mi mangio il fegato tutti i giorni e tutte le notti e tu sei lì, vicino alla candela che si spegne, tenendo la mano di tuo figlio.