Look at me
Sembra che le nonne americane si stiano attrezzando in gran numero con sistemi di videoconferenza che dovrebbero consentir loro di tenersi in contatto con la prole sparsa ai quattro angoli del continente: “Voglio che [il nipotino, tre settimane di età] mi possa vedere, possa sentire la mia voce. Voglio potergli leggere delle storie, ed essere partecipe di alcune delle sue prime azioni”, dice Melody Wilt, parlando di sè e di suo nipote, divisi da dieci ore di strada.
Non ho un’opinione precisa in materia; a pelle, senza stare a scomodare Orwell (o Jon Endemol), e senza lanciarmi in considerazioni tecnico-economiche sull’affidabilità ed economicità della banda larga in Italia, l’idea di comunicare via webcam non mi attira particolarmente. Sarà che, in occasione dell’unica videoconferenza alla quale ho assistito, sono stato licenziato in diretta in compagnia di un’altra cinquantina di persone sparse in tredici nazioni.
Ma capisco. Ho la fortuna di abitare a cinque minuti di macchina dai miei genitori e dai miei suoceri, la gran parte dei miei amici abita in un’area di quindici chilometri quadrati, insomma, una grossa fetta delle mie relazioni umane non necessita di strumenti tecnologici per prendere forma.
C’è chi non ha analoga fortuna, e vorrebbe avere la possibilità di vedere in faccia la mamma, il nipote, la sorella, l’amica, l’ex collega, pur stando a centinaia di chilometri di distanza. Mi pare comprensibile.
Ci adatteremo, mi adatterò. Ci son cose peggiori nella vita.
New York Times