Leggendo questo articolo di Paolo Berizzi su Repubblica pensavo alla bizzarria del famoso codice etico dei carcerati. Non perchè questi ne debbano per forza essere sprovvisti, e l’affermazione della sua esistenza suoni una contraddizione in termini: ma per il suo seguire una logica – e, appunto, un’etica – del tutto propria: e chissà se questa si crea e si assimila in carcere, o chi entra in carcere ne è già intriso.
Perchè, non fosse per i fatti che originano queste poco originali riflessioni, verrebbe da sorridere nel leggere della donna “dentro per storie di droga” che rifiuta la sola idea di incrociare lo sguardo dell’assassina, e in particolare dell’assassina di bambini; con ogni probabilità, quelle “storie di droga” sono cose di relativo poco conto, qualche panetto di hashish. Ma probabilmente l’atteggiamento sarebbe lo stesso se si trattasse di etti o chili di cocaina o di eroina: e la detenuta in questione continuerebbe a sentirsi “migliore”, considerando più grave l’omicidio diretto di una persona rispetto a quello indiretto mediante cessione di certi stupefacenti.
Vorrei chiarire: non giudico, o quantomeno cerco di non farlo. Rileggendomi, trovo una vena di moralismo nemmeno tanto nascosta. Però, diciamo che vorrei capire, se questo fosse possibile.
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