Ho appena speso trentotto sterline per andare a un networking party, cioè una manciata di ore passate a bere birra e mangiare finger food avendo come scopo quello di scambiare biglietti da visita, salutare una manciata di persone che sono tanto amici quanto “business partner”, parlare del più e del meno cercando di intuire se ci sono possibili affari in vista, e tirar sera per spostarsi magari in un pub dove parlare solo di calcio, vacanze e lavori in casa.
Di cose del genere, per lavoro, me ne toccano una quindicina all’anno, grosso modo. E più le faccio, meno ci credo – anche se non posso evitarle. Un po’ bisogna esserci portati, alla vita sociale: e io non lo sono particolarmente. Un po’ questi eventi tendono a soffrire di un gigantismo che ad un successo di facciata (“c’erano duecento persone!”, “hey, see, fifteen guys from Singapore and Hong Kong – great”) accompagnano risultati modesti in termini di numero e qualità dei contatti. Perchè la quantità in questi casi non può legarsi alla qualità, perchè se cerchi di parlare con più di dieci persone finisci per non parlare con nessuno, perchè non siamo Paris Hilton, perchè Paris Hilton ci fa anche un po’ tristezza, perchè ci vuole qualcuno che sappia fare il networker e questo è un lavoro da padrone di salotto – e non è un’abilità da tutti.
Ma non è tutto. Sotto sotto (ma neanche tanto sotto, credo) c’è questa idea diffusa che “conoscere tanta gente” sia bello, gratificante e utile. Ora: utile, forse. E sottolineo il forse, perchè non ne sono così sicuro. Ma che la cosa sia bella e gratificante, ecco, non so. E poi, uno va a cena con cento persone ma alla fine il suo tavolo è fatto da otto; si ritrova ad essere follower di duecentocinquanta individui su Twitter e poi gliene interessano davvero solo tredici; ha cinquecento blog nel feedreader e ne legge forse trenta. Però non bisogna dirlo in giro, non a voce alta almeno.