Il matto che urla
Il matto che urla ha ormai più di quarant’anni. Lo so, perchè lo conosco. Siamo praticamente cresciuti insieme, stesso palazzo, stesso cortile, stesso gruppo di amici che giocava a pallone e correva in bicicletta e andava a buttar fiammiferi nell’Olona che scorreva a cielo aperto in piena città. Per noi era solo uno del gruppo, quello strambo, quello che non c’era verso di vincere una gara di corsa perchè lui era il vento e noi le pietre, quello che palla lunga e vai vai vai e scardinava le mani dei portieri avversari con il suo destro incapace e bestiale. Con il passare del tempo è diventato più solo, cupo e cattivo, mentre noi lasciavamo il quartiere per andare al liceo, e all’università, e al lavoro; lui, invece, girava ogni giorno per le stesse strade con il passo pesante degli anfibi neri e sporchi, lo stereo sulla spalla, la musica sparata, parlando da solo, gridando forzainter, lanciando minacce innocue. E’ triste vedere quello che per qualche anno è stato un tuo amico, un compagno di tempi e giochi diventare lo scemo del villaggio che però non si ricorda nemmeno più di te, che ti passa vicino mentre stai uscendo dal centro commerciale e ti abbaia chicazzoseitispaccolafaccia.
Ieri mattina ero riuscito a sedermi, una cosa che alle otto del mattino non capita praticamente mai da quando la fermata dove prendo la metropolitana non è più il capolinea. Il posto vicino all’entrata, sul lato destro della porta di ingresso al vagone. Ho aperto il giornale, come al solito ho iniziato a leggerlo dal fondo – meteo, spettacoli, sport, di politica e economia avevo già sentito abbastanza il giorno prima. Poi è salito lui, il mio vecchio compagno di cortile trasformatosi nel matto che urla, giubbotto, jeans stretti ed i soliti anfibi, uno zainetto sulle spalle come uno scolaro e chissà cosa ci teneva dentro. Ha iniziato il suo soliloquio a voce altissima, le labbra umide di saliva, lo sguardo che passava da un passeggero ad un altro e ognuno a infossare ancora di più gli occhi nelle pagine di un libro, a girare la testa da un’altra parte, ad alzare il volume dell’iPod, tutto pur di ignorarlo, come si fa con i mendicanti o i violinisti che salgono e attraversano il vagone nel minuto di tempo che divide una fermata da quella successiva chiedendoti una moneta, grazie signore. Poi il matto che urla ha guardato me, che come tutti gli altri facevo finta di niente; lui non sapeva più chi ero io, ma io sapevo benissimo chi era lui, non c’era nessun altro su quel dannato vagone che avesse passato con lui tanto tempo quanto avevo fatto io, non c’era nessuno che avesse provato a sgonfiargli le gomme della bicicletta per poterlo battere nella gara con partenza da fermo, non c’era nessuno che avesse perso il respiro per essere stato colpito da una sua pallonata in pieno stomaco, non c’era nessuno che avesse conosciuto lo sguardo torvo di sua madre. Ho capito che per lui ero uno come tutti gli altri, e ciò nonostante mi sono alzato, ho lasciato il mio inaspettato posto a sedere, ho preferito scendere ed aspettare il prossimo treno pur di non sentirlo berciare per altri venti minuti. Quando sono sceso dal vagone ho aspettato un momento prima di voltarmi; ho visto le porte richiudersi, ho guardato il matto che continuava a urlare, ho riaperto il giornale per vedere cosa avrebbero dato in televisione, e il treno è ripartito.