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    31/01/2009

    Greetings from

    Filed under: — JE6 @ 14:44

    Non so se è stato un presentimento di qualcosa che sarebbe successo, se è stato un caso o un segno del destino. So che l’idea di raccogliere i quasi quattrocento post che nel corso degli ultimi sei anni ho scritto raccontando dei posti che mi trovavo a visitare, in genere per motivi di lavoro, ha iniziato a farsi più forte e sentita verso la fine dell’anno scorso. La sensazione che quel pezzo della mia vita si stesse per concludere era sempre più netta, e oggi mi rendo conto che tutto torna. Perchè tenere quei racconti nel recinto di una raccolta a me dà l’idea della fine del viaggio, di questo tipo di viaggio, significa farli passare dal movimento quotidiano del blog alla cristallizzazione di una cosa chiamata libro. Poi, chissà, magari è solo che voglio vedere simboli dappertutto, anche dove non ce ne sono.
    Comunque, qualche settimana fa mi sono messo di buzzo buono, ho rovistato negli archivi, selezionato, cambiato qualche titolo, fatto un po’ di editing, organizzato: 6 anni di vita, uno o due centinaia di voli, qualche decina di migliaia di chilometri di autostrada, 19 paesi, 55 città, 393 post. Antonio Tombolini, al quale va qui un ringraziamento speciale, ha pensato che quella raccolta potesse prendere la forma di un e-book, ed ha deciso di editarlo con la sua Simplicissimus. Il libro si intitola “Greetings from – Partire, guardare, deviare, fare “ooohhh”, tornare, partire”, e lo potete scaricare gratuitamente dalla Simplicissimus Book Farm. Non so se vi piacerà – sarebbe bello saperlo, in modo pubblico o privato a vostra scelta; io ci sono affezionato, per tanti motivi, e in fondo si sa che ogni scarrafone è bell’ a mamma soja. Buona lettura, se vi va, e se vi va fate girare la voce.
    Antonio Tombolini, Simplicissimus, Greetings from

    E’ iniziata una decina di anni fa. La cosa di viaggiare per lavoro, dico. Olanda, Francia, Spagna. Immagino che già allora avrei dovuto capire che il destino degli anni a venire non sarebbe stato quello di visitare luoghi da cartolina (o almeno, non solo quelli) bensì quello di deviare, guardare i posti restando un po’ di lato, percorrere un grande viale da cartolina e poi farsi incuriosire da una finestra, un’insegna e prendere così una via laterale e poi un’altra ancora e poi perdere definitivamente – e senza rimpianto – la direzione. Dicevo Parigi ed era Drancy, dicevo Eindhoven ed era Son, dicevo Madrid ed era Tres Cantos: una specie di “ho visto cose che voi umani”, ecco.

    Sei anni fa è arrivato il blog, e siccome in qualche modo bisognava pur riempirlo ho pensato che avrei potuto raccontare le cose che vedevo quando mi capitava di mettermi in strada per le mie piccole tournées. Perché i viaggi di lavoro questo sono: la valigia del commesso viaggiatore assomiglia molto alla valigia dell’attore: contiene l’abito di scena, il trucco, le carte del copione ripetuto cento o mille volte e ogni volta nuovo, magari senza emozione ma magari con una inaspettata sorpresa. E poi il bar dell’albergo, il ristorante segnalato da un amico, la telefonata a casa, il messaggio tanto atteso o del tutto imprevisto, lo show per portare a casa un ordine oppure l’applauso di un uditorio di seri professionisti, la corsa verso l’aeroporto.

    Questo è il risultato della raccolta: una cinquantina di città, una ventina di paesi, tre continenti. Avendoci preso gusto, c’è anche un po’ di turismo, ma è poca cosa. Non saprei dire se esiste un luogo preferito tra tutti quelli dai quali ho scritto imbucandomi in improbabili Internet point all’aroma di kebab o usando connessioni alberghiere a prezzo di rapina. So di avere due scene che mi stanno a cuore: una mattina gelida nel campo di concentramento di Dachau, e un viaggio notturno in taxi a Bucarest in mezzo ad un corteo nuziale fatto di motociclette strombazzanti, con la sposa che viaggiava felice su un trabiccolo degli anni Sessanta e il tassista che suonava il clacson per farci partecipare alla festa – il che, credo, la dice lunga su quello che mi piace del mondo.

    Partire è bello, perché si può tornare. E tornare è bello, perché si può ripartire. E ora, via: si parte.