L’impiegato
L’impiegato sale sempre alla stessa ora. Entra nello stesso vagone, dalla stessa porta, ogni mattina che Dio manda in terra. Lavora in centro, nel centro storico, nobile e bello di Milano, in quella manciata di vie nelle quali ti senti un po’ a Vienna e un po’ a Boston. Ma vive in periferia, e della periferia ha anche l’aspetto fisico: elegante ma non abbastanza, almeno non per essere – o provare, o fingere di essere – alla pari con quei gran signori che percorrono i corridoi ovattati della direzione generale della grande banca per la quale lavora. Non sembra che gliene importi molto: mi è capitato di incontrarlo “fuori” – fuori dall’orario lavorativo, fuori dalla metropolitana, alla luce grigia dell’inverno padano – e indossava, con quello che sembrava piacere fisico, una larga tuta sportiva, e per quei trenta secondi durante i quali l’ho seguito con lo sguardo, senza che lui se ne rendesse conto, ho pensato che quello era veramente lui, nel modo più intimo e reale che potessi immaginare. L’impiegato conosce tante persone, impiegati come lui, e casalinghe, e pensionati, e studenti, e con ognuno scambia due parole, spesso accompagnate da una pacca sulla spalla: lo fa mentre scende le scale della stazione della metropolitana, mentre aspetta il treno, mentre percorre la quindicina di fermate che lo separano dal suo ufficio. E’ cordiale di natura, lo osservo sorridere, commentare le partite del giorno prima o l’uscita di un nuovo modello familiare o la mancanza di neve sulle Alpi; e tutti gli danno retta. Sembra il secondo cugino di chiunque, per quel modo leggero, innocuo e alla fine superficiale con cui tratta tutti e con cui tutti lo trattano. Non so se ha una famiglia, una moglie, dei figli. Non porta la fede al dito, ma si sa che questo non vuol dire nulla. Me lo immagino vivere da solo, oppure insieme ad una madre anziana, zitello benestante, stimato ma non desiderato. Quando, raramente, gli capita di viaggiare da solo apre la Gazzetta dello Sport, e io lo guardo mentre la legge con un’espressione che è spenta e triste al tempo stesso, come se in quel momento fosse tornato nella sua camera da letto, nella sua stanza da bagno, dove ha uno specchio e si vede per quello che è – e per quello che lo hanno fatto diventare.